Non di soli premi vive il welfare
Secondo i dati ufficiali del Governo la percentuale di lavoratori in Italia che convertono premi aziendali in servizi è ancora bassa. I numeri sono indicativi, ma vanno letti anche in prospettiva di rinnovamento e rilancio delle politiche di welfare.
I dati sulla diffusione dei Premi di risultato rilasciati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) desunti dall’analisi delle dichiarazioni dei redditi per l’anno 2017 meritano a nostro avviso qualche commento aggiuntivo, oltre al commento già pubblicato su Tuttowelfare.info.
Alla fine del 2017 il Ministero del Lavoro certificava la presenza di 15.639 contratti di secondo livello attivi. Secondo il Mef ciò equivale a dire che, a quella data, poco più di 2 milioni di lavoratori dipendenti avevano potuto usufruire di una maggiorazione (in media) di 1.270 euro quale componente variabile della retribuzione, il che corrispondeva a circa un 15% di lavoratori dipendenti che, secondo le stime di Ocse-Cisl, aveva potuto contare su questo elemento premiale legato alla produttività.
Il Ministero del Lavoro certifica anche il fatto che, alla fine del 2017, esattamente un terzo dei contratti attivi prevedeva la possibilità di convertire (in tutto o in parte) il premio in servizi di welfare aziendale. Rapportato al dato presentato dal Mef ciò porterebbe a una stima di circa 650mila lavoratori per i quali sarebbe stata potenzialmente effettuabile la scelta della ‘welfarizzazione’ del premio.
Lo stesso database prodotto dal Mef ci restituisce, però, una fotografia molto diversa: sono stati, infatti, poco più di 130mila i lavoratori che hanno optato per la conversione della parte variabile del salario in servizi di welfare il cui valore medio è risultato pari a 720 euro. Stiamo dunque parlando di una platea molto ristretta, di poco superiore al 6% di chi ha potuto godere, in cash o in kind, della corresponsione di un premio. Questi sono i dati, fermi come detto al 2017. Partiamo da qui per porre sul piatto alcune considerazioni e per avanzare alcune proposte di miglioramento.
La conversione è ancora contenuta
La dimensione del fenomeno mostra contorni decisamente meno robusti rispetto a molte delle retoriche circolanti in questi anni. Che cosa ci si può attendere dai dati più aggiornati che proprio in queste settimane i contribuenti italiani stanno dichiarando al Fisco?
Sappiamo dal Ministero del Lavoro che alla fine del 2018 i contratti attivi erano circa 1.800 in più rispetto alla fine del 2017, mentre quelli contenenti l’opzione della conversione al welfare avevano superato le 7.500 unità, con un tasso di penetrazione non più di un terzo, ma di quasi il 50% sul totale dei contratti attivi.
È ragionevole dunque immaginare un significativo aumento del numero dei lavoratori che opteranno per la conversione del premio in servizi di welfare, ma i numeri resteranno probabilmente comunque molto piccoli, se si pensa che la rilevazione sul mercato dei provider effettuata nella seconda metà del 2018 da ALTIS-Università Cattolica, aveva stimato una platea di utilizzatori dei servizi offerti dai principali portali di welfare presenti in Italia di circa 1,7 milioni di lavoratori (di cui quelli con premio ‘welfarizzabile’ erano evidentemente solo una parte).
In sostanza, può già preconizzarsi che la conversione del premio continuerà a riguardare una percentuale molto piccola dei lavoratori italiani, mentre è ragionevole pensare che continuerà a essere bloccata tra il 20% e il 30% la percentuale dei lavoratori beneficiari di premio che decideranno di convertirlo in beni e servizi di welfare (come emerge dalle dichiarazioni aziendali e da quelle degli stessi provider, mentre tutt’altra questione, ovviamente, sarà verificare il quantum della conversione che, a oggi, ci dice che una quota cash del premio viene sempre sostanzialmente preservata).
Anche le dimensioni economiche complessive del fenomeno restano molto contenute: su circa 2,7 miliardi di euro entrati nelle tasche dei lavoratori dipendenti sotto forma di premio, il Mef ci comunica che solo il 3,5% (ossia circa 94 milioni di euro) deriva dalla conversione in servizi di welfare. Occorre anche domandarsi perché i tassi di adesione alla welfarizzazione del premio e l’ammontare della sua conversione in servizi siano così bassi.
La prima ipotesi è che i lavoratori non gradiscano la formula per motivi di opportunità: se è pur vero che la conversione in welfare azzera l’Irpef (altrimenti comunque contenuta al 10%) è altresì certo che tale opzione azzeri anche la contribuzione previdenziale (quella datoriale e quella individuale) e stante la crescente anzianità anagrafica dei lavoratori anche l’attenzione alla sorte del proprio montante contributivo sta forse crescendo.
Le cose vanno un po’ meglio in quelle imprese dove il saving contributivo aziendale viene ‘restituito’ (in tutto o in parte) ai lavoratori incrementando il valore del complessivo premio a essi spettante: tale incremento è ovviamente limitato alla platea che sceglie di convertire il premio in servizi e la prassi è stata accolta anche dall’Agenzia delle Entrate che vi ravvisa una “categoria omogenea” di lavoratori in perfetta compliance con la disciplina che governa premi e welfare.
Rilanciare gli strumenti di welfare
Ci sembra evidente che ci sia un problema di comunicazione e di conoscenza delle ‘regole del gioco’. Notoriamente i lavoratori conoscono ancora poco e male (e con loro molte imprese, specie di piccole e medie dimensioni) la materia del welfare e dei premi di risultato e in particolare gli impatti economici, fiscali e previdenziali di questi due ‘istituti’.
Tra i servizi di welfare attivabili con la conversione del premio, c’è la possibilità di alimentare i fondi della previdenza complementare e in tal caso non solo non vale più il limite economico stabilito dal Tuir ai fini della defiscalizzazione di tali importi (più precisamente tale limite si estende di ulteriori 3mila euro quale limite massimo di valore del premio oggetto della disciplina che qui interessa), ma soprattutto la prestazione pensionistica derivante dalla contribuzione alimentata dal premio neppure sarà soggetta a tassazione.
A fronte di questo si può comprendere che solo la non conoscenza di una simile opportunità, invece certamente sostenuta dal Legislatore proprio nell’ottica del rafforzamento del ‘secondo pilastro’ pensionistico, può spiegare il fatto che di essa non vi sia un più pieno sfruttamento.
Considerazioni quasi analoghe possono valere per i contributi economici versati alla sanità integrativa che, parimenti, non soggiacciono al limite del Tuir quando essa sia ulteriormente alimentata dagli importi premiali. Come nel caso precedente, quindi, quel limite può estendersi per un massimo di ulteriori 3mila euro.
Piuttosto di alzare il valore del premio e di abbassare la tassazione del salario variabile ancorato ai target di produttività (come vorrebbe una recente proposta di legge di chiara matrice euro-elettorale, analizzata anche da Tuttowelfare.info), occorrerebbe prevedere una più massiccia diffusione della conoscenza della materia.
Come si comprende, questa può avere importanti effetti sul piano della cosiddetta ‘previdenza contrattuale’ (pensioni complementari e sanità integrativa) e che potrebbe essere opportunamente favorita (per esempio tramite la bilateralità) e anche eventualmente incentivando fiscalmente il sostenimento dei relativi costi per la formazione del personale.
Una formazione, oltretutto, alla quale avrebbe interesse non solo il mondo delle imprese datrici di lavoro, ma anche l’Erario, posto che una maggiore conoscenza delle ‘regole del gioco’ finirebbe per rafforzare un elemento sempre più socialmente rilevante per il Paese quale, appunto, è il welfare aziendale.
In questo sforzo formativo un ruolo importante andrebbe riconosciuto anche alle organizzazioni sindacali, chiamate in questa direzione a un necessario potenziamento delle competenze, innanzitutto al livello di delegati di base.
Altro tema è quello del numero delle imprese che accedono alla nuova disciplina dei premi di produttività. Sono poche. Troppo poche. Manca all’appello il tessuto produttivo nazionale che è quello delle PMI.
Finché in qualche grande azienda si erogano premi e si fa Employer branding sventolando la ricchezza del piano di welfare che è stato allestito, certamente si comunica una buona prassi e il giornale di turno ‘spende’ un nome che fa notizia, ma sul piano del successo delle policy sottostanti la manovra che ha riguardato Tuir e Premi di risultato non si fanno passi avanti.
Dalla co-progettazione al benessere organizzativo
Cosa potrebbe rendere più agevole la strada per una maggiore diffusione delle prassi welfariste anche nell’ambito dei premi? Forse una possibile strada riguarda il regolamento aziendale. Si sa che determinate condizioni, è stato elevato a fonte istitutiva di possibili interventi di welfare che possono godere dello stesso favor fiscale riconosciuto a quelli di derivazione contrattuale.
Perché allora non ipotizzare che una micro o piccola azienda (dove il sindacato non c’è e il contratto non si fa) non possa procedere al deposito del regolamento (analogamente a ciò che avviene con i contratti di secondo livello se si vuole accedere alla disciplina favorevole applicabile ai premi) mettendo così in condizione di poter fruire dei benefici conseguenti sia le centinaia di migliaia di piccole aziende, che oggi non partecipano allo schema di cui parliamo, sia i milioni di lavoratori di fatto sin qui esclusi – pur a parità di settore, di mansioni e di inquadramento – dalla fruizione di quegli stessi benefici?
Tutto ciò, infine, ci dice una cosa: che il welfare non è innanzitutto percepito dai lavoratori come un semplice pacchetto dei benefit che derivano dalla conversione del premio, soprattutto se articolati senza una strategia di reale ‘presa in carico’ dei bisogni e affidato, invece, a soluzioni individuali e più prossime alle logiche consumistiche dell’ecommerce.
Per convincere i lavoratori, il welfare deve poter istituire innanzitutto tutele e poi anche premi. Deve cioè potersi esprimere attraverso la costanza della sua erogazione, a prescindere dall’alea collegata al possibile raggiungimento di uno o più obiettivi di business dell’azienda per cui si lavora (da cui possono giungere elementi aggiuntivi, ma mai sostitutivi di un più articolato e personalizzato sistema di welfare ordinario).
Il welfare, quindi, è quello che deriva da una scelta strategica dell’impresa che si sostanzia in un investimento che attraverso la reale compartecipazione alla cura dei bisogni espressi dai lavoratori (spesso ‘per conto’ delle loro famiglie) perviene a una solida co-progettazione di un piano d’interventi dal quale poi attendersi un ritorno sul piano organizzativo traducibile anche in valori economici e come tale misurabile.
Il ritorno sarà dato nei termini di un’accresciuta produttività, di una maggiore fidelizzazione dei lavoratori, nella riduzione di alcuni costi organizzativi e nel miglioramento di quei KPI (tangibili e intangibili) che l’impresa vorrà monitorare perché human centred e quindi più facilmente connessi agli effetti dell’introduzione del welfare.