Sei eccessivamente connesso e disponibile sul lavoro? Forse sei un work creeper
Due estremità opposte: da un lato c’è il quiet quitting, ovvero la tendenza sul lavoro a svolgere solo lo stretto necessario delle proprie mansione, mentre all’estremità opposta c’è il work creep che tradotto in italiano significa “lavoro strisciante”. Il termine indica il comportamento di quei lavoratori che volontariamente tendono ad assumersi sempre più mansioni e responsabilità, a restare in ufficio più del dovuto o a rimanere collegati ai device anche oltre l’orario lavorativo. Mentre quindi i quiet quitters non si indentificano nel proprio lavoro e decidono di mettere al centro la propria vita privata e il proprio benessere personale, i work creepers non sono in grado di porre dei limiti ai ritmi frenetici e sono portati a “strafare”, ma senza aspettarsi aumenti salariali.
Quali sono quindi i “sintomi” del work creep? Dilatare l’orario di lavoro oltre i limiti contrattuali, essere a completa disposizione di superiori e colleghi, rimanere sempre collegati ai device e controllare assiduamente mail e chat aziendali. Ma anche assumersi incarichi extra (non sempre pertinenti al proprio ruolo), passare la pausa pranzo davanti al pc e non staccare durante il week-end. Sono tutti segnali di un attaccamento eccessivo del lavoratore all’azienda. Ma soprattutto sono il riflesso della sua volontà di ottenere un riconoscimento dal proprio capo e di dimostrarsi all’altezza delle aspettative del team realizzando performance sempre più ambiziose.
Il work creep fa quindi leva sul valore psicologico insito negli accordi di lavoro (come aspettative, disponibilità e riconoscimenti) ed è diverso dal workaholism, cioè la dipendenza da lavoro che colpisce soprattutto i manager nel momento in cui devono staccare dal lavoro (per esempio, in ferie) e sentono un terribile senso di vuoto e malessere.
Questo approccio ha come conseguenza un aumento dei livelli di stress che non solo peggiora la qualità della vita, ma in cronico può portare al cosiddetto “burnout”, cioè all’esaurimento delle risorse psico-fisiche.
A favorire questo fenomeno impatta senz’altro la possibilità di essere sempre connessi al lavoro tramite pc, tablet e smartphone: questo ha spinto molti lavoratori ad una maggiore disponibilità in termini di tempo e incarichi da assumere, soprattutto durante il periodo di smart working in lockdown (che pure ha rappresentato per molti un ottimo strumento per conciliare vista privata e professionale). E questo atteggiamento è stato mantenuto da molti impiegati anche in seguito al ritorno in ufficio in forma ibrida, cioè alternando giorni in azienda e giorni di smart working. Se insomma queste nuove modalità di lavoro hanno portato importanti benefici a molti lavoratori, consentendo una miglior work-life balance, si sono rivelati dei boomerang per altri.
Come porre un freno a questo fenomeno? La risposta deve partire dall’interno, dagli stessi lavoratori che ne soffrono e che devono prendere maggior consapevolezza della propria situazione. La soluzione è quella di imparare a porre dei confini in termini di tempo e mansioni, a dire di no o a delegare, e, nel caso la mole di lavoro e le mansioni aumentino, essere abbastanza sicuri di sé per chiedere al proprio capo un aumento e uno scatto di carriera.