Sanità pubblica e privata, una bilancia in equilibrio precario
Che rapporto intercorre oggi tra sanità pubblica e privata in Italia? Ne traccia il quadro, indagando i possibili scenari futuri, Francesco Capria del Centro Studi Assidim.
La legge di Bilancio 2020 porta con sé numerose novità che riguardano l’ambito sanitario. In particolare, a essa è collegato il Ddl Sanità 2020, che prevede un riordino dei ticket sulla base di un principio di progressività, ovvero in rapporto al reddito e alla composizione del nucleo familiare.
Non solo: sarà abolito il cosiddetto ‘superticket’ da 10 euro che, dal 2011, veniva applicato alle prescrizioni di visite ed esami a discrezionalità delle Regioni, per far fronte al taglio dei trasferimenti di fondi verso le amministrazioni locali.
Ma proprio perché uguale per tutti i redditi (dunque più ‘pesante’ per quelli bassi) e discrezionale territorialmente, questo balzello veniva definito da molti (uno su tutti, Nino Cartabellotta, Presidente di Gimbe) iniquo e fonte di ulteriori diseguaglianze. Questa situazione rendeva particolarmente appetibile il mercato privato nelle Regioni in cui si applicava la tassa.
Il Ssn rischia di restare con le casse vuote
Per capire meglio come interpretare il nuovo scenario, Tuttowelfare.info ha intervistato Francesco Capria, Centro Studi Assidim, associazione no profit operante nel welfare aziendale dal 1981.
La sua opinione sul Ddl è che, per quanto apprezzabile, lo sforzo fatto dal Governo è ancora insufficiente: abolendo il superticket e rimodulando il peso fiscale sulle famiglie, lo Stato dovrà garantirsi comunque un gettito da 1,5 miliardi di euro.
Esiste inoltre un problema che attiene alle fonti di finanziamento: servono risorse, ma da dove arrivano? Saranno le Regioni a sopperire al mancato introito di circa 700 milioni derivante dall’abolizione del superticket?
“In Italia partiamo da una situazione in cui quasi un cittadino su due è già esente dal ticket”, osserva Capria, “dunque si rischia che il peso della rimodulazione del ticket gravi ancor più sui redditi medi che, per intenderci, sono quelli ricompresi tra 36 e 75 mila euro”.
La conseguenza più immediata è la fuga dei cittadini verso la sanità privata: “Questo significherebbe meno incassi per la sanità pubblica, quindi un danno per tutti, perché è dimostrato che il solo gettito fiscale delle fasce medio-basse non basta a ripagare le prestazioni di cui esse fruiscono”.
D’altra parte, è evidente che il settore privato della sanità sta diventando sempre più competitivo e appetibile a causa del “ben noto problema della lunghezza delle liste d’attesa”, ma anche “per la ‘fuga’ dei medici stessi dal pubblico al privato”.
I fondi sanitari portano benefici a molti
Poi, sostiene Capria, ci sono anche altre due questioni fondamentali, ma ancora poco considerate. La prima riguarda la diffusione dei fondi integrativi, “inseriti nei piani di welfare aziendale o, come nel caso dei fondi negoziali, istituiti nell’ambito della contrattazione collettiva nazionale o decentrata”.
“Il progressivo diffondersi di tali misure non ha portato benefici solo ai dipendenti e familiari che ne fruiscono direttamente, ma le ricadute positive della ‘democratizzazione del secondo pilastro del welfare’ si estendono a tutta la collettività”.
L’altra riguarda l’effetto redistributivo che si accompagnerebbe a un consolidamento del cosiddetto secondo pilastro di welfare. “Per esempio, in Germania ai redditi alti è data la possibilità di scegliere se rimanere nella copertura pubblica e finanziarla attraverso la fiscalità generale oppure uscirne e usufruire di una copertura assicurativa”.
È un meccanismo, quello dell’opting out, che favorisce la riduzione dei costi assistenziali per il sistema sanitario nonché la riduzione delle liste di attesa per i cittadini meno abbienti.
Il pubblico arretra sulla non autosufficienza
C’è un secondo ambito di intervento pubblico che non è più possibile ignorare e riguarda le condizioni di vita e salute degli anziani, disabili e non autosufficienti: “L’aspettativa di vita alla nascita è aumentata ma, per contro, la speranza di vita in buona salute dopo i 65 anni peggiora: questa è un’area di bisogno che il welfare pubblico non riesce a soddisfare”.
Secondo Capria “i due terzi dei bisogni socio-sanitari degli assistiti non sono garantiti dallo Stato, anche perché si sommano a una manifesta inadeguatezza delle strutture e, come osserva Cartabellotta di Gimbe, a un mancato adeguamento della spesa socio-sanitaria al suddetto e crescente fabbisogno: parliamo di 9 miliardi di euro che restano a carico totale delle famiglie”.
Nell’immaginario collettivo degli italiani il Ssn è un “diritto acquisito” e si tende a dare per scontata la protezione universalistica. Ma sappiamo che non è così, soprattutto in una prospettiva futura.
“Servono soluzioni nuove e condivise nell’ottica di una reale integrazione pubblico-privato”, prosegue Capria, che si interroga altresì sull’esito della promessa dei circa 4 miliardi di euro destinati all’edilizia sanitaria e al finanziamento del Patto per la Salute 2019 -2021 da parte del Governo ‘gialloverde’ e di cui ora teme possa essersi persa traccia.
Il Ssn deve affrontare altre emergenze, tra cui quella dei circa 30.000 medici ospedalieri che, entro il 2022, andranno in pensione: “Non sono state valutate a monte le conseguenze dal punto di vista organizzativo e dell’outcome sanitario; oggi si è costretti a correre ai ripari, richiamando medici militari o in pensione, o facendo lavorare gli specializzandi dell’ultimo anno, sempre a causa della scarsa lungimiranza dei Governi di turno.
“Il tema della sanità viene infatti molto spesso sacrificato ed espunto dalle agende dei diversi partiti per i quali – conclude Capria – è molto più redditizio presentarsi agli elettori con provvedimenti spot e sensazionalistici, ma di fatto poco o per nulla sostenibili. Così facendo però, anziché favorire il mantenimento del nostro modello di welfare universalistico, si rischia di affossarlo definitivamente”.