Meritocratico e sostenibile, l’altra faccia del welfare
Integrare il welfare aziendale e territoriale è un’esigenza sempre più concreta. Bisogna investire in employability, territorialità e maggiore flessibilità, passando attraverso una rimodulazione del welfare stesso, che si rinnova e diventa meritocratico e sostenibile per rispondere alle mutate necessità delle persone e delle imprese.
In Italia c’è una domanda di servizi alla famiglia che non trova risposta. Le istituzioni pubbliche, infatti, non sono in grado di assumersi da sole l’intero carico, ma potrebbero collaborare con il privato, superando le tradizionali divisioni di competenze. In questo modo, le imprese potrebbero diventare protagoniste a livello locale, attraverso servizi di welfare rivolti non solo ai dipendenti dell’azienda, ma ampliati alla comunità e al territorio circostanti.
Il passaggio da welfare solo aziendale a welfare integrato e territoriale con forte interazione con il pubblico è auspicato da Franca Maino, Direttrice del laboratorio “Percorsi di secondo welfare” e Ricercatrice presso il Dipartimento di Scienze sociali e politiche dell’Università degli Studi di Milano, che vede nel dialogo tra sfera economica e sfera sociale uno strumento per realizzare iniziative fortemente innovative e per diffondere pratiche virtuose.
Tuttavia, i rappresentanti delle imprese fanno notare che, al di là delle teorie, nella costruzione di un percorso di welfare ci sono dei passaggi ‘concreti’ che vanno tenuti in considerazione. Se da una parte, infatti, è vero che il welfare aziendale può essere utilizzato per rispondere non solo ai bisogni dei dipendenti, ma anche delle famiglie, della comunità e del territorio, dall’altra bisogna tenere conto anche delle esigenze delle imprese, della situazione del mercato del lavoro e della sostenibilità economico e finanziaria del sistema di welfare.
Employability e territorialità del welfare
“Le imprese chiedono flessibilità, ma non investono in flessibilità. Una policy strutturata e orientata a più fasce di popolazione, invece, avrebbe ricadute positive”, sostiene Dario Cavenago, Docente di Economia Aziendale dell’Università degli studi di Milano Bicocca. “Dare maggiore attenzione all’employability è un investimento sociale da parte delle aziende con conseguenze importanti, per esempio per rispondere alla tanto richiesta flessibilità all’interno dell’impresa”.
C’è poi, secondo l’esperto, una parte ‘rigida’ delle competenze con cui viene formato chi deve entrare nel mondo del lavoro o vuole cambiare carriera non rimane più attuale a lungo: “Oggi la capacità più apprezzata è quella di assorbire conoscenza”.
“Anche le imprese puntano a cambiare e a stabilizzarsi per adeguarsi a un mercato in continua trasformazione. Per questo è fondamentale recuperare spazi di azione in cui far incrociare le esigenze delle imprese e quelle di studenti e lavoratori”.
Il welfare deve, però, rispondere alle necessità delle persone. “Il welfare è uno strumento di protezione dai rischi e dalle esigenze che nascono nel lavoro. E poiché il lavoro e le esigenze delle persone cambiano, così anche il welfare deve essere rimodulato”, è la tesi di Paola Gilardoni, Segretario Cisl Lombardia.
Il welfare aziendale può essere usato come risposta a bisogni di conciliazione vita-lavoro, cura dei figli o dei genitori anziani, sviluppo dell’individualità e gestione del proprio tempo. Può essere anche utilizzato come un’opportunità per costruire un percorso e dei legami nell’impresa che sostengano la persona nei momenti di fragilità della vita.
Ma il welfare può anche avere ripercussioni positive sulla comunità locale, perché dà la possibilità di rispondere alle esigenze non solo dei lavoratori, ampliando gli interventi ai bisogni delle famiglie in una logica di interazione con il welfare del territorio per dare una risposta complessiva ai bisogni di un gruppo. “La sfida è la sostenibilità economico e finanziaria del sistema. Ci sono già tanti soggetti che si stanno muovendo e confrontando su questo tema: è necessario osservarli per trovare una soluzione. Perché oggi c’è bisogno di un modello integrato tra pubblico e privato”.
Il caso Rubinetterie Bresciane Bonomi e il welfare meritocratico
Rubinetterie Bresciane Bonomi ha iniziato un proprio percorso di welfare già nel 1997. Luca Pintossi, Rdel progetto welfare e rapporti sindacali, racconta come è nato, come si è sviluppato e quali risultati ha ottenuto. “Abbiamo iniziato istituendo dei premi di risultato come forma di coinvolgimento: abbiamo comunicato ai lavoratori i parametri dell’azienda e abbiamo cominciato a farli lavorare per obiettivi”.
Da qui il passo all’introduzione del concetto di meritocrazia è stato breve: “Il Premio di risultato non veniva più distribuito in modo omogeneo a tutti i dipendenti, ma in base alla valutazione di parametri individuali, che venivano però sempre comunicati a tutti. Questo ha creato l’attenzione giusta e necessaria per condividere gli obiettivi dell’azienda. E ci ha permesso, negli anni di piena crisi, di investire 45 milioni di euro per creare un polo all’avanguardia, con attenzione all’ergonomia e all’ambiente”.
“Al di là delle tante teorie, un’azienda vive di situazioni concrete. Ci sono dei passaggi che vanno messi in conto nella costruzione di un percorso di welfare aziendale. Per noi l’esigenza primaria resta quella di creare aree defiscalizzate. Con questo in mente, quando nel 2013 abbiamo ampliato il piano di welfare e lo abbiamo reso uguale per tutti i livelli, abbiamo optato per un portale in cui le persone possono scegliere i servizi che vogliono”, conclude Pintossi.