L’Italia tra i peggiori Paesi UE per l’equilibrio vita-lavoro
Qual è il posto migliore in Europa in cui lavorare bilanciando al meglio vita privata e lavoro? A quanto pare, non l’Italia. Nonostante il tema del benessere sul lavoro sia sempre più oggetto di campagne di sensibilizzazione, le aziende italiane risultano essere ancora lontane dall’obiettivo di raggiungere un adeguato livello di work-life balance, come dimostrano diverse analisi.
In particolare, secondo “l’European work-life balance 2023” realizzato dall’azienda Remote, che ogni anno classifica la qualità dell’equilibrio vita-lavoro in ogni nazione europea, l’Italia occupa il 27esimo posto su 30 dell’indice, con un risultato di 55,71 punti su un massimo di 100. Nella top 5 rientrano invece Lussemburgo, Spagna, Francia, Norvegia e Danimarca.
L’indice prende in considerazione una serie di fattori vitali, tra cui: assistenza sanitaria, salario minimo, congedo di maternità, congedo annuale obbligatorio, retribuzione in caso di malattia, livelli di felicità complessiva. Quest’anno però si sono aggiunti due nuovi parametri: orario di lavoro medio e inclusività LGBTQ+.
Guardando in particolare il dato sul numero di ore media lavorate, in effetti anche l’ultimo report Eurostat rileva che in Italia si lavora troppo: circa 2 milioni di lavoratori restano sul posto di lavoro per 50 ore a settimana, contro le 40 ore previste, ovvero 8 ore al giorno per 5 giorni. Si tratta del 9,4% del numero degli occupati totali, che corrisponde a circa 23 milioni di persone. Un dato che supera la media europea, che si attesta al 7%. Il problema aggiuntivo, sottolinea l’Ocse, è che in Italia si lavora troppo e male: queste ore extra di lavoro infatti non si traducono generalmente in un aumento della produttività, come emerge dal rapporto tra il PIL, il numero di lavoratori e di ore lavorate nel nostro Paese.
Per quanto riguarda il tema dell’inclusione, un report di Istat e Unar (l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) rileva che nel 2020-2021, su oltre 20mila persone (occupate e disoccupate), il 26% ha dichiarato che il proprio orientamento sessuale ha rappresentato uno svantaggio nel corso della propria vita lavorativa in almeno uno dei tre ambiti considerati, ovvero carriera e crescita professionale, riconoscimento e apprezzamento, reddito e retribuzione. Il 40,3% ha evitato di parlare della vita privata per tenere nascosto il proprio orientamento sessuale, e una persona su cinque afferma di aver evitato di frequentare persone dell’ambiente lavorativo nel tempo libero per non rischiare di rivelare il proprio orientamento sessuale. Il 34,5% riferisce di aver subito almeno un episodio di discriminazione durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Certamente questi sono numeri che inquadrano una situazione generale, ma bisogna poi guardare ai casi singoli e concreti: molte aziende si stanno già muovendo attivamente per cambiare la cultura del lavoro e creare condizioni migliori per favorire il benessere dei dipendenti. Se da una parte c’è ancora tanta strada da fare, dall’altra bisogna riconoscere lo sforzo di diverse realtà aziendali nel diffondere maggior consapevolezza che un buon equilibrio vita-lavoro può impattare positivamente sulla produttività e la qualità del lavoro.