La pausa pranzo come welfare
Un’esposizione alla Camera del Lavoro di Milano mostra come è cambiato il modo di consumare i pasti sul luogo di lavoro. E svela com’è cambiata la società raccontando com’è cambiato il consumo del cibo.
Dalla schiscêta mangiata di fronte ai macchinari al refettorio, dalle mense occupate al self service: il consumo del cibo in fabbrica rispecchia i mutamenti della società del Novecento, con le sue conquiste e i suoi ‘arretramenti’. E ci ricorda che la pausa pranzo è stata una conquista fondamentale nella storia del welfare aziendale. Che non va data per scontata, come ci dimostra la realtà odierna con i suoi pasti sempre più veloci consegnati direttamente alla scrivania e ingurgitati davanti al computer.
Le immagini di questo percorso lungo 100 anni sono diventate un’esposizione alla Camera del Lavoro di Milano nella mostra fotografica Pausa pranzo. Cibo e lavoro nell’Italia delle fabbriche, organizzata da Fondazione Isec e Cgil Milano.
Una carrellata di fotografie di grandi autori, ma anche di operatori anonimi, messe a disposizione da una trentina di archivi aziendali e sindacali e selezionate dai curatori Giorgio Bigatti e Sara Zanisi di Fondazione Isec in collaborazione con il fotografo Uliano Lucas e l’art director Fayçal Zaouali. Un viaggio dalla fine dell’Ottocento agli Anni 90 del Novecento, allestito per la prima volta nel 2015 a Sesto San Giovanni in occasione di Expo 2015 e ora approdato a Milano.
“È nei primi decenni del Novecento che nasce nella manodopera e nei datori la consapevolezza di dover creare condizioni agevoli in cui consumare il cibo”, spiega a Tuttowelfare.info Zanisi. Il processo parte dagli spazi: a inizio secolo comparvero nelle fabbriche i primi refettori dotati di scaldavivande, grandi boiler di acqua calda in cui si poteva mettere la schiscêta di metallo a scaldare. Era l’operaio, dunque, a portarsi il cibo già pronto da casa, che veniva consumato in poco tempo, magari anche alla postazione di lavoro.
“Agli esordi del Novecento le situazioni variavano da fabbrica a fabbrica”, dice la curatrice. “Il percorso verso una pausa pranzo vera e propria non fu lineare e progressivo, ma vide ‘alti e bassi’ a seconda della forza dei lavoratori nel rivendicare i propri diritti”. Per esempio a Sesto San Giovanni, grande polo industriale del Milanese, nacquero, appena fuori dai cancelli delle fabbriche, piccole osterie con menù veloci, compatibili con le brevi pause.
L’ora di pausa pagata dal ‘padrone’
Ogni realtà, dunque, si arrangiava da sé. Fino al Secondo Dopoguerra, quando arrivò la svolta: l’ora di pausa pranzo a spese del datore del lavoro. Fu allora, in particolare a partire dagli Anni 60, che iniziarono a trovare posto all’interno delle fabbriche le prime mense, locali gradevoli e funzionali appositamente progettati dalle aziende, che capirono la necessità di investirvi.
Il lavoratore aveva quindi finalmente diritto a un tempo e a uno spazio dedicati al pasto, con il cibo preparato e servito dalle cucine aziendali. E tuttavia quel luogo appena nato diventò presto altro: da semplice mensa in cui mangiare e godersi un po’ di riposo a spazio pubblico e politico, di formazione e informazione.
“Le mense iniziarono a ospitare assemblee, diventarono i luoghi della lotta sindacale, venivano occupate dai lavoratori che volevano rivendicare quella conquista”, racconta ancora Zanisi. Seduti sulle sedie dei refettori, gli operai non si limitavano a pranzare: leggevano i giornali, conversavano, ascoltavano, organizzavano le proprie battaglie. E così il momento della pausa pranzo da individuale diventò sempre più collettivo.
E oggi? Si ritorna indietro. “C’è chi parla della nostra epoca come di un ‘Ottocento iper tecnologico’, in cui si assiste a un ritorno di condizioni remote, come appunto la scomparsa della pausa pranzo propriamente detta”. Oggi vengono a mancare tempi e modi dei pasti: “Si pranza davanti al pc senza smettere di lavorare, i coworking sono attrezzati con le cucine”.
Per Zanisi il fenomeno va letto nel contesto della polverizzazione generale della società contemporanea, in cui non esistono più gli spazi che creano comunità e socializzazione. “Si tratta di una retrocessione in termini di diritti civili che tuttavia non deve essere vista come un punto di non ritorno: è sempre possibile migliorare”.
In questo senso la mostra può fornire spunti utili ai manager di oggi. “Le fotografie esposte possono essere lo spunto per una riflessione sullo sfruttamento delle risorse umane in azienda e sull’occupazione del tempo. In passato le imprese riconobbero che per favorire concentrazione, efficienza e produttività dovevano garantire agli operai migliori condizioni di lavoro. Oggi si deve tornare a quella consapevolezza”.