In famiglia il welfare è di casa
La società cambia e con essa anche i nuclei familiari. Da pilastro della società si stanno trasformando non offrendo più il sostegno di un tempo: aumentano i single, calano le nascite e sono sempre di più le donne lavoratrici. Ecco che il welfare deve sapersi adeguare al cambiamento.
È la prima fonte di ricchezza e di servizi di cura, ma anche la più trascurata. La famiglia, primo vero presidio di welfare, dà risposta a molteplici esigenze della società: la cura dei bambini, l’assistenza agli anziani, i lavori domestici, il sostegno ai giovani che si affacciano con fatica al mondo del lavoro. È una risorsa originaria forte, ma anche in rapida trasformazione. E il rischio è che i cambiamenti in atto lascino inascoltati molti dei bisogni a cui finora ha saputo dare risposta.
Secondo i dati di Euromonitor International, i genitori single starebbero crescendo a un ritmo tre volte superiore rispetto alle coppie che vivono insieme. Nel 2030 il numero di famiglie monoparentali aumenterà di circa 120 milioni e le separazioni nel mondo aumenteranno del 78%. La maggior parte delle famiglie avrà un solo figlio e la bassa natalità non farà che aumentare l’età media della popolazione.
Questi cambiamenti hanno un impatto significativo anche sul welfare: se non sarà più la famiglia a svolgere certi compiti, chi se ne occuperà? “Tutta una serie di funzioni assistenziali continuano a essere affidate alle famiglie, anche se, tenendo conto delle trasformazioni in atto, fanno sempre più fatica ad assolvere alla funzione di cura”, conferma Paola Di Nicola, Professore Ordinario di Sociologia all’Università di Verona.
Insieme con lo Stato e il mercato, la famiglia è da sempre considerata uno dei pilastri del cosiddetto “capitalismo del benessere”. Secondo la docente, conserva ancora questo ruolo, che anzi diventa centrale quando si riducono le politiche di welfare. Ci si appoggia alla famiglia, insomma, senza prestare attenzione ai cambiamenti strutturali che il modello tradizionale sta vivendo.
“Si dà per scontato che il nucleo familiare debba svolgere un ruolo di cura per i suoi membri più deboli o non autosufficienti, ma si dimenticano due elementi: spesso gli anziani vivono ormai in nuclei separati, il che rende l’assistenza più complessa, e nelle famiglie più giovani in cui l’occupazione femminile è più diffusa le donne hanno minore disponibilità di tempo per svolgere questo incarico”.
Un nuovo ruolo per il welfare aziendale
Che sia per carenza di risorse o per incapacità di intercettare i bisogni della collettività, il welfare pubblico fatica a rispondere alle esigenze delle famiglie. Il mondo delle imprese può assumere allora un ruolo di supplenza e insieme di supporto, per alleviare il carico che grava sui singoli componenti del nucleo familiare e in maggior misura sulle donne.
“Potrebbe essere una risorsa”, ammette Di Nicola. “I nidi aziendali esistono, ma non sono tantissimi perché resta un servizio costoso e solo poche imprese possono permettersi di sostenerlo. È più complesso pensare a un servizio aziendale che vada a vantaggio dei caregiver che si occupano di anziani e persone non autosufficienti, ma un grande aiuto arriverebbe dal riconoscimento di una maggiore flessibilità di orario o di lavoro”, continua la docente.
Soluzioni quali lo Smart working o il lavoro agile andrebbero, quindi, nella direzione di facilitare i compiti di cura di genitori e figli. Tanto più che oggi le due necessità finiscono per sovrapporsi: si fanno figli sempre più tardi e, quando i bambini sono ancora piccoli, i nonni sono già anziani.
“La tendenza che si sta manifestando è che chi può ricorre al mercato privato, anche perché si stanno sviluppando attività e imprese che intercettano questi nuovi bisogni della famiglia. In prospettiva, le differenze di classe e le disuguaglianze sociali, che il vecchio sistema di welfare voleva attutire, riprenderanno vigore”, spiega la docente.
Serve il sostegno alla genitorialità
Non sarebbe, infatti, un caso se in alcune realtà italiane ancora limitate, come in alcuni centri del Nord Est, hanno ricominciato a fare figli le donne laureate, occupate, che vivono una relazione di coppia e abitano in luoghi in cui godono di maggiori servizi. “Hanno capacità progettuale nella gestione dei compiti di cura che altre donne non hanno, perché hanno maggior potere contrattuale e possono optare per più soluzioni integrando il servizio pubblico con quello privato”.
“Il problema della crisi della natalità e della fecondità non si risolve, se non si consente alle donne di rafforzarsi dal punto di vista sociale ed economico, di lavorare e avere la possibilità di conciliare vita e lavoro”.
È anche un discorso di flessibilità: avere un impiego flessibile e delle forme flessibili di gestione dei servizi a cui fare riferimento aiuta parecchio. Poter uscire prima dal lavoro una o due volte a settimana o poter scegliere di volta in volta se usufruire del nido a tempo pieno o a tempo parziale permetterebbe di conciliare i bisogni dei figli con gli impegni del genitore. E il problema non riguarda soltanto donne e bambini.
“C’è un aumento dei single, spesso uomini separati o divorziati, che non hanno una rete di riferimento né di assistenza attorno. Quando si ammalano, non c’è nessuno che si prenda cura di loro durante la degenza”, spiega Di Nicola. “Anche questo è un nuovo bisogno e occorrerà che la società se ne faccia carico”.