Il senso del dovere
Una riflessione sul senso del lavoro e dell’impegno scaturita dall’emergenza sanitaria da Covid-19, con un occhio al passato: i fatti di Chernobyl del 1986
Da qualche giorno, sulla porta a vetri della portineria del condominio in cui ha sede la redazione di Tuttowelfare.info c’è un cartello che accoglie le persone. “Vorrei ringraziare tutti i condomini che mi hanno gratificato per aver svolto il mio dovere nel periodo Covid-19; gesti e iniziative così sono unici e sempre più rari, e mi spingono a lavorare con orgoglio. Sono fiero di fare il custode per questo condominio”. Ho letto il messaggio in portineria la mattina successiva aver visto una puntata della serie tivù Chernobyl nella quale alcune scene mi avevano costretto a riflettere sul senso del lavoro.
La bramosia umana che rischiava di cancellare metà Pianeta
Vado con ordine. Com’è noto, la serie televisiva narra il disastro della centrale nucleare Vladimir Ilic Lenin, avvenuto il 26 aprile 1986; le successive azioni per contenere l’emergenza; e le indagini per individuare i colpevoli della tragedia. Il giorno prima dell’esplosione del reattore 4, era in programma un test la cui riuscita avrebbe trasformato la centrale di Chernobyl in eccellenza dell’Urss e del mondo. Quello stesso test – che consisteva nel verificare, in caso di blackout, se l’energia ancora prodotta dalla fissione avesse continuato ad alimentare le pompe dell’acqua per colmare la necessaria attesa per l’attivazione dei generatori diesel di riserva – era già stato tentato più volte e non era mai stato concluso. Anche quel 25 aprile 1986 gli eventi sembravano indicare che il test avrebbe dovuto essere rimandato: era, infatti, necessario dimezzare la potenza del reattore, ma da Kiev arrivò la richiesta di non ridurre la produzione di energia. I vertici della centrale nucleare decisero di rimandare di qualche ora le operazioni: fu una delle scelte che condusse al disastro.
Senza scendere nei dettagli, basti sapere che nel nocciolo c’è un delicato equilibrio chimico-fisico gestito attraverso il ‘dosaggio’ di vari elementi. L’abbassamento di potenza di un reattore avrebbe imposto l’esecuzione di varie azioni (ignorate) per riportare l’equilibrio. Si aggiunga, poi, che gli operatori del turno di notte non erano né preparati né informati del test; e le procedure erano molto confuse, tanto che c’erano istruzioni depennate accanto ad altre da svolgere; ma tutto questo non impedì ai dirigenti di rinviare le operazioni. Il buon esito del test, infatti, si sarebbe tradotto in promozioni a cascata…
Se fin qui ci sono gli errori umani, il resto è imputabile a errori di progettazione: ogni centrale nucleare è dotata di un pulsante di arresto di emergenza che, solitamente, introduce le barre di controllo per raffreddare rapidamente il nocciolo. Purtroppo, nel caso di Chernobyl, le batte avevano la punta di grafite, materiale in grado di innalzare – seppure di poco – la temperatura del nocciolo, che, però, era già ben oltre ogni limite. Da qui l’effetto detonatore delle barre, l’esplosione e lo spargimento dei materiali radioattivi intorno alla centrale.
Non per soldi, ma per il “perché” più profondo
Lo scenario che si presentò agli occhi di chi fu chiamato a gestire l’emergenza era al limite dell’immaginazione umana (nelle vicinanze del nocciolo le radiazioni erano così elevate che bastavano pochi secondi per morire). E una catena di altri eventi rischiava di peggiorare la situazione, con il concreto pericolo che anche gli altri tre reattori sarebbe potuti esplodere, con conseguenze catastrofiche per gran parte dell’umanità. Per evitare un’escalation di tragedie, serviva svuotare i serbatoi di acqua, perché da elemento utile per raffreddare il reattore, in quel caso si sarebbe rivelato devastante (la temperatura del nocciolo era tale da far evaporare immediatamente l’acqua, facendo salire la temperatura e innescando le esplosioni). Tuttavia era necessario entrare fisicamente nella centrale per compiere l’operazione.
Di recente ho moderato una tavola rotonda sul tema dell’arte di organizzare. Al tavolo a discutere, tra i vari manager coinvolti, c’era anche un Amministratore Delegato di un’importante azienda. Alla mia domanda se viene prima l’organizzazione oppure le persone, mi ha risposto: “Prima di tutto c’è il perché; c’è il senso di ciò che si fa e del proprio lavoro”.
Dunque, chi, tra i tecnici di Chernoby, sarebbe andato incontro a morte certa? Davanti ai tecnici in grado di portare a termine con successo la missione, per convincere almeno tre uomini a compiere l’impresa, nella serie televisiva Valerij Alekseevič Legasov, Vicedirettore dell’Istituto dell’energia atomica Kurčatov e parte della squadra incaricata di gestire le conseguenze del disastro, dice che lo Stato li avrebbe ricompensati con 400 rubli, che corrispondevano all’incirca a quattro mensilità dell’epoca. Nessun tecnico si alza per candidarsi. Tocca a Boris Evdokimovič Ščerbina, Vicepresidente del Consiglio dei Ministri e capo dell’Ufficio per il Combustibile e l’Energia, nonché guida della Commissione governativa su Chernobyl, sbrogliare la matassa. Quando uno dei tecnici chiede perché dovrebbero morire per 400 rubli, il politico risponde così: “Lo farete perché deve essere fatto. Lo farete perché nessun altro può farlo. E se non lo farete, moriranno a milioni. E se mi dite che non vi basta, non vi credo. Io devo fare la mia parte e voi dovete fare la vostra. E andrete in quell’acqua, perché deve essere fatto”. Passano pochi secondi e tre volontari si fanno avanti e completano l’attività con successo.
Il welfare aziendale che oggi conosciamo è (ri)nato a seguito della crisi del 2008. Oggi che affrontiamo una tra le più drammatiche emergenze sanitarie dell’epoca moderna, una parte di welfare rischia di essere cancellata. Con il Pil in caduta libera, nel 2020 i Premi di risultato saranno ridotti all’osso, perché difficilmente si raggiungeranno gli obiettivi di produttività cui sono legati i Pdr. Nel 2016 ci siamo illusi che per aumentare la produttività servisse scambiare servizi di welfare in cambio di maggior impegno. La storia, però, insegna che a motivare il personale non sono di certo i soldi. Spiegatelo ai tecnici di Chernobyl. O, meno drammaticamente, al nostro custode, rimasto coraggiosamente al suo posto per tutta la fase 1 della pandemia. Diciamolo: è ora di ripensare al welfare. Quello vero.