Welfare, patti oltre le parole

Welfare, patti oltre le parole

Investire sul purpose riguarda il senso stesso dell’attività lavorativa. E anche nelle imprese diventa sempre più necessario che il welfare diventi una leva per potenziare il gruppo e ingaggiare le persone alla mission aziendale.

 

 

Qualche tempo fa sono stato spettatore di uno di quegli eventi duranti i quali un vendor (nel mondo che frequento è un’azienda che fornisce una particolare tecnologia) illustra ai suoi partner, clienti e prospect le novità dei prodotti dell’anno che a breve si aprirà.

 

Non è raro che in queste occasioni siano invitati esperti e giornalisti per presentare la kermesse o almeno una parte di essa. È stato proprio ascoltando lo speech di un collega – avete presenti quelle ‘introduzioni’ giornalistiche che servono più che altro per consentire alla gente di capire che si stanno iniziando i lavori e bisogna dunque prendere posto in sala? – che ho sentito per la prima volta l’espressione “purpose washing.

 

Ne sono rimasto molto colpito, in particolare perché proprio in quel periodo stavo affrontando con il Direttore di una delle riviste di cui gestisco i contenuti, il tema del purpose, inteso come il “senso” che si cuce addosso all’attività lavorativa.

 

E pure nei nostri discorsi, che restano solitamente confinati in redazione, ci interrogavamo sul fatto che non è raro che certe azioni di employer branding nascondano una mera attività di marketing (di facciata) piuttosto che una concreta volontà di coinvolgere le persone. In questo la comunicazione, dobbiamo ammetterlo, è un validissimo alleato del marketing.

 

In una recente survey promossa dalla testata online Tuttowelfare.info abbiamo interrogato il nostro network, composto da imprenditori, Direttori HR e manager, sulle nuove prospettive del welfare aziendale. Tra le domande poste, abbiamo chiesto l’obiettivo alla base dell’introduzione del piano di welfare.

 

Ne è emerso un quadro piuttosto variegato, anche se a farla da padrone sono state la volontà di “migliorare il clima aziendale” e di “generare engagement” (“ridurre gli oneri fiscali” veniva subito dopo, ma questo è un altro discorso…).

 

Segno, dunque, che il welfare è una leva per potenziare un gruppo e ingaggiare le persone alla mission aziendale. Interessante poi il dato sulla modalità di comunicazione del piano di welfare in azienda; a contendersi il primato sono state: “intranet aziendale” e “assemblee”. Due modalità diametralmente opposte di comunicazione, che riconducono a ciò che si nasconde dietro la volontà di generare un purpose condiviso.

 

L’importanza di un purpose condiviso

 

In ambito welfare – ma il discorso potrebbe valere per tutte le attività HR e non solo – la comunicazione è il mezzo di cui la Direzione del Personale si serve per convincere le persone della bontà delle azioni intraprese. Per esempio spesso i beni e i servizi di welfare messi a disposizione dall’azienda sono fruibili attraverso una piattaforma, che, come è noto, nella stragrande maggioranza dei casi è fornita da un provider esterno.

 

La conferma arriva sempre dalla nostra indagine secondo cui l’erogazione tramite piattaforma del fornitore esterno vale per circa il 74% degli intervistati. La piattaforma è uno strumento che i provider mettono a disposizione di numerose aziende e la Direzione HR è chiamata a darne un senso rispetto alle sue necessità e a quelle delle sue persone, oltre che ai suoi valori.

 

Ma, come spesso accade in ambito tecnologico, la piattaforma porta con sé regole e dinamiche generate e promosse dal suo ideatore, che lasciano ben poco margine decisionale ai fruitori, che sono costretti ad accettare le linee guida decise da un soggetto terzo esterno all’azienda.

 

Se chi gestisce il welfare è chiamato semplicemente a dare concretezza a una linea imprenditoriale a ogni costo, allora la comunicazione servirà per portare le sue persone su quel terreno nel quale potrà gestire ogni dinamica, imponendo quindi una modalità non condivisa. Appunto quella di utilizzare una piattaforma che non è detto sia davvero in grado di rispondere alle necessità del personale.

 

Diverso, invece, il caso in cui la comunicazione genera un patto tra il manager (l’azienda) e il dipendente. È qui che, per restare nell’esempio citato, si può ammettere che la piattaforma è in realtà un sistema di ingegnerizzazione del processo che però cala nella pratica quanto è stato condiviso e accettato dopo un dialogo.

 

Per fare un parallelismo che resti sempre nell’ambito HR, possiamo considerare il processo di payroll. È largamente diffuso – e accettato – che la gestione delle buste paga avvenga all’esterno dell’azienda, grazie a un fornitore che si prende cura di questo (delicato) aspetto. C’è però un patto alla base del processo tra l’azienda e la persona: l’ingegnerizzazione del payroll dà concretezza agli accordi, perché la busta paga sancisce quanto condiviso.

 

Non sarebbe allora il caso di applicare lo stesso principio nel welfare? Al di là delle doti comunicative dei suoi manager, l’azienda dovrebbe firmare un patto chiaro con i dipendenti anche per i piani di benessere, accettando il punto di vista dell’interlocutore e trovando un punto d’incontro. Il patto genera fiducia e quindi l’ingaggio forte.

 

Che, guarda caso, è tra i principali obiettivi di chi promuove il welfare in azienda. Se dal patto si genera ingaggio, di conseguenza ne scaturisce un purpose condiviso. E non c’è certo più bisogno di lavare alcunché o di rifarsi il look.

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