Welfare aziendale, è tempo di razionalizzazione

Welfare aziendale, è tempo di razionalizzazione

I pacchetti di benessere per i dipendenti negli ultimi anni sono cresciuti molto tanto che oggi sono presenti nell’80% delle grandi imprese e nel 30% delle Pmi. Ora però servono interventi interpretativi per fare chiarezza su alcuni punti della normativa esistente.  Lo dice Emanuele Massagli, presidente di Aiwa.

 

Emanuele Massagli

Il welfare aziendale prende si fa sempre più strada nell’economia italiana. Vuoi nei rinnovi contrattuali, vuoi nelle intese aziendali. Ma Emanuele Massagli, presidente di Aiwa e docente di Pedagogia del lavoro e di Welfare della persona all’università degli Studi di Bergamo, consiglia di non fare confusione. «Intanto», spiega a Tuttowelfare.it «dobbiamo chiarirci su che cosa sia il welfare aziendale. Noi di Aiwa, l’Associazione italiana welfare aziendale, per esempio, definiamo il termine come “somme, beni, prestazioni, opere, servizi corrisposti al dipendente, aventi finalità di rilevanza sociale” e per questo esclusi, in tutto o in parte, dal reddito di lavoro dipendente. Se aggiungiamo anche misure di carattere organizzativo come la flessibilità, la banca delle ore, il part-time, gli istituti della conciliazione famiglia-lavoro per le donne, ovviamente siamo di fronte a un settore dal valore molto più alto di quanto si dica».

 

Quali sono i numeri?
Numeri precisi non ci sono, però sappiamo che crescono sia le aziende sia i lavoratori coinvolti: si parla del 30% nelle Pmi e dell’80% delle grandi. Per esempio, soltanto guardando agli ultimi accordi di produttività, che sono 25mila l’anno, nella metà l’erogazione del premio è prevista anche in welfare. Per quanto riguarda il giro d’affari, soltanto quello dei buoni pasto vale 3,5 miliardi di euro e mezzo. A livello generale siamo intorno ai 7 miliardi, ma secondo una recente ricerca del Censis si potrebbe arrivare 21 miliardi.

 

Crescono anche i soggetti che fanno da intermediari?
Sì, si tratta dei cosiddetti provider, che lavorano con le Pmi, visto che i grandi erogano direttamente il loro welfare aziendale. Stanno crescendo a livello esponenziale: con tutte le ramificazione avranno non meno di 2mila addetti. I tredici soci di Aiwa, che coprono l’80% del mercato, crescono continuamente. Nascono ogni giorno start up e nuove divisioni, molte sono strutturate perché provengono da altri settori. È in effetti molto variegato questo mondo: ci sono broker assicurativi tipo Aon o WillisTowerWatson, banche e assicurazioni come Unipol, società che fanno buoni pasto, provider che gestiscono le piattaforme come Easy welfare ed Eudaimon, aziende di Payroll come il gruppo Zucchetti, o gli stessi consulenti del lavoro organizzati in società. E si stanno muovendo in questa direzione anche le agenzie di lavoro.

 

Cosa resta ancora da fare dal punto di vista normativo?
Razionalizzare. Il Tuir, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi, dice che tutto quello che viene scambiato all’interno del rapporto di lavoro è reddito da lavoro. Tra le eccezioni troviamo il welfare aziendale, in ragione della rilevanza sociale. Che di conseguenza non genera né tassazione né contribuzione. Diversi sono quindi gli interventi che si possono fare sul Tuir, per chiarire ciò che già c’è ed integrare quel che manca.

 

Il Tuir è del 1986, perché soltanto oggi il welfare aziendale sta raccogliendo tanto interesse?
Se ne parla soltanto ora, perché le modifiche introdotte con la Finanziaria per il 2016 hanno superato i vincoli anacronistici previgenti. Per esempio, per non rientrare nel reddito da lavoro da tassare, il premio doveva essere “volontariamente” sostenuto dal datore di lavoro: cioè l’imprenditore doveva aver fatto una concessione unilaterale. Di conseguenza restavano fuori sia quanto erogato in fase contrattualistica sia in quella della gestione delle risorse umane tout court.

 

Invece che cosa è successo nel 2015?
Il legislatore ha, da un lato, inserito il premio di produttività tra gli strumenti “pagabili” con il welfare aziendale. Dall’altro, ha permesso che lo stesso welfare aziendale avesse pieno accesso agli sgravi fiscali e contributivi, anche quando rientrava nello “scambio” tra datori e lavoratori. Cioè un trattamento economico ancor più di favore è riconosciuto quando il welfare aziendale è previsto in un accordo, in contratto o in un regolamento (inteso come atto unilaterale non contrattato, ma pienamente vincolante).

 

Qual è stato il risultato?
Semplice, sono decollati questi i piani di welfare aziendale. Se prima le imprese che erogavano welfare erano in media il 30%, adesso una su due ha attive misure simili.

 

Non sono terminate qui le modifiche legislative…
No, perché nelle ultime manovre il legislatore ha ulteriormente agevolato i piani di welfare, ampliando i beni che possono essere scambiati senza essere tassati come reddito da lavoro. Tanto che adesso questo settore potrebbe seguire due strade.

 

Quali?
Visto che le modifiche in questi anni si sono avute per stratificazione, il legislatore potrebbe scrivere un testo unico per razionalizzare la materia.

 

L’altra strada?
Si deve lavorare per ampliare quello che può entrare nel welfare aziendale, prevedendo misure già esistenti nel diritto del lavoro o nella tassazione dei redditi delle persone. Per esempio, campagne con finalità sociali con un meccanismo similare al 5 per mille per finanziare questi prodotti a determinate categorie di lavoratori che oggi sono escluse. Oppure, nella stessa logica con la quale il Jobs act prevede a un lavoratore di cedere le sue ferie ad altri colleghi, si potrebbe permettere ad alcuni lavoratori di concedere ai colleghi servizi di welfare aziendale, come pacchetti di cura o l’assicurazione integrativa, non utilizzati che altrimenti andrebbero persi.

 

Finora non ha parlato della necessità di drastiche modifiche normative…
No, perché le leggi esistenti sono sufficienti. Caso mai servono interventi interpretativi, più amministrativi che legislativi, per chiarire alcuni punti. Per esempio, ci si può fare rimborsare il corso di calcio per i figli? Per dubbi come questi basta una circolare delle Agenzie delle Entrate ben scritta, che pare essere in lavorazione.

 

Quali sono, invece, le prossime sfide di natura strategico-industriale?
La sfida più grande è far comprendere alle aziende che il welfare aziendale non è soltanto uno strumento per ridurre i costi del lavoro a livello fiscale e contributivo. È soprattutto il sintomo nella rivoluzione in atto della natura del rapporto di lavoro, il superamento del semplice scambio salario-prestazione. Sono gli stessi dipendenti a chiedere servizi. Le imprese devono capire che il welfare aziendale è un’occasione per attrarre le migliori skill e contemporaneamente per non perdere le persone più competitive.

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