E vissero pensionati e contenti
La previdenza pubblica ormai non basta più e sempre più si ricorre a forme di pensione integrativa, come mostrano i dati della Relazione annuale della Covip. In questo passaggio, anche culturale, per i lavoratori un ruolo strategico rilevante è affidato alle aziende.
Il tema della sostenibilità finanziaria dei sistemi previdenziali assume sempre più rilevanza in una società, come quella italiana, dove all’invecchiamento progressivo della popolazione si accompagna anche la contrazione demografica, che approfondisce il solco che divide coloro che percepiscono una prestazione previdenziale da quanti contribuiscono per finanziare quella prestazione.
“In Italia c’è uno scarso utilizzo della previdenza integrativa per motivi reddituali e culturali e una scarsa conoscenza della previdenza, nonostante i benefici portati dalla previdenza complementare in tema di agevolazioni fiscali”, spiega Giuseppe Buscema, Fondazione Studi Consulenti del Lavoro.
“L’invecchiamento della popolazione e l’ingresso nel mondo del lavoro in età più avanzata che in passato, invece, richiedono l’utilizzo della previdenza complementare da affiancare alla previdenza pubblica. Un altro argomento in favore della scelta di una forma di previdenza complementare è il tasso di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione che va sempre più riducendosi per via del passaggio dal sistema pensionistico retributivo al sistema contributivo”.
A sostegno delle sue affermazioni, Buscema cita alcuni dati della Relazione annuale della Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, presentata alla Camera dei deputati il 12 giugno 2019. Alla fine del 2018, il totale degli iscritti alla previdenza complementare ammonta a 7,9 milioni, il 4,9% in più rispetto al 2017. In percentuale delle forze di lavoro, il tasso di copertura si attesta al 30,2%. Le risorse accumulate dalle forme pensionistiche complementari totalizzano 167,1 miliardi di euro, il 3% in più rispetto all’anno precedente, e si ragguagliano al 9,5% del Pil e al 4% delle attività finanziarie delle famiglie italiane.
Costruirsi la pensione per la futura tranquillità
L’anagrafica degli iscritti si differenzia molto per genere, età e provenienza regionale. Gli uomini rappresentano il 61,9% degli iscritti alla previdenza complementare, contro il 46,3% delle donne. Il 56,8% degli iscritti risiede nelle regioni del Nord. Mentre la distribuzione per età vede la prevalenza delle classi intermedie e più prossime all’età di pensionamento: il 54,7% degli iscritti ha un’età compresa tra i 35 e i 54 anni, il 27,6% ha almeno 55 anni. “I giovani sotto i 35 anni fanno meno previdenza, per una questione di cultura, ma anche perché guadagnano meno soldi”, rimarca Buscema.
“Nel 1995 siamo passati da un sistema pensionistico retributivo, basato sullo stipendio dell’ultimo anno di lavoro, a uno contributivo in cui i lavoratori devono ‘costruirsi’ la pensione anno dopo anno. In questo scenario, la pensione pubblica non garantisce più una vecchiaia tranquilla, ma esistono sistemi che vanno a compensare eventuali gap e rendere più tranquilli gli anni della vecchiaia”, ragiona Claudio Valentini, Head of Life Development & Intermediate Banks di Zurich.
Con il cambio di sistema è cambiato anche il modo in cui si calcola l’importo della pensione, rendendolo meno immediato e prevedibile. I coefficienti in base ai quali si calcola la pensione oggi, infatti, non dipendono solo dal lavoratore, ma anche dalle leggi in vigore e dall’andamento del Pil al momento dell’uscita dal mondo del lavoro. “L’importante è essere consapevoli che il mondo è cambiato, capire come viene calcolata la pensione e poi decidere se e come integrarla. Esistono diverse soluzioni complementari alla pensione pubblica, come i piani pensionistici individuali o i fondi pensione di categoria”.
Welfare per migliorare performance e senso d’appartenenza
Proprio per questo Valentini ci tiene a precisare che “le aziende giocano un ruolo culturale strategico per la diffusione delle forme di previdenza complementari”: “Possono attivare un piano pensionistico per i dipendenti, che porta vantaggi fiscali alla società e un guadagno ai dipendenti”. Ci sono anche altri benefit assicurativi applicabili nell’ambito del welfare aziendale: assicurazioni sulla vita, malattie e infortuni.
“La prima polizza che i dipendenti chiedono è quella sanitaria: ce l’hanno 99 aziende su 100. Seguono la polizza infortuni e quella sulla vita, che hanno una frequenza bassissima, ma una magnitudo altissima. Purtroppo in Italia c’è un contesto culturale che rende molto difficile parlare di questo tipo di previdenza sul lungo termine, occorre ragionare in termini di investimento e di tutela del reddito e del tenore di vita della famiglia”.
Il problema culturale, tuttavia, non riguarda solo i singoli. “È difficile far capire anche alle aziende che a portare i veri benefici è il pagare meglio e non il pagare di più. Le aziende che adottano piani di welfare dal basso hanno turnover più bassi e quindi spese di assunzione e formazione inferiori. Il welfare aziendale migliora in maniera diretta anche altri indicatori: la cultura aziendale, il senso di appartenenza, la reputazione aziendale e diminuisce l’assenteismo”, conclude Valentini.