Con la Toc i progetti sociali hanno una marcia in più
Si chiama Theory of change (Toc) ed è una metodologia applicata nell’ambito del terzo settore, per pianificare e valutare progetti che promuovono il cambiamento sociale. Un modo per mettere a fuoco meglio gli obiettivi che si intendono raggiungere e per ottimizzare gli investimenti.
Il nome, Theory of Change (Toc), ce l’ha dalla metà degli Anni 90, ma i suoi germogli furono posti negli Stati Uniti alla fine dei ‘50. Si tratta di una metodologia specifica applicata nell’ambito del sociale, per pianificare e valutare progetti che promuovano il cambiamento sociale attraverso la partecipazione e il coinvolgimento. Eppure se 4 o 5 anni fa, in Italia, aveste provato a chiedere a qualche operatore del Terzo Settore e della filantropia cosa fosse la Teoria del Cambiamento, probabilmente, vi avrebbe guardato con lo sguardo perso di chi non sa di cosa si stia parlando. Lo spiega Simone Castello, Responsabile Centro Studi sulla Filantropia Strategica di Fondazione Lang Italia: «Noi siamo stati tra i primi a proporlo in Italia e veramente non avevamo trovato nessuno che ragionasse con questo strumento e in questo tipo di logica». Ora però le cose stanno cambiando e questo approccio che prevede la necessità di fissare un obiettivo per poi costruire a ritroso una catena causale di interventi che possano permettere di raggiungerlo sta prendendo piede anche in Italia, seppur lentamente. Il Philanthropy Day 2018 tenutosi a Milano lo scorso ottobre, è stato l’occasione per fare il punto anche su questo aspetto, in uno dei panel moderato proprio da Simone Castello, che ha visto la partecipazione di Mission Bambini, SOS Villaggi dei Bambini Italia, Tavola Valdese e Spazio Aperto Servizi. «Abbiamo cominciato il nostro incontro chiedendo quanti conoscono lo strumento e quanti lo hanno già utilizzato», spiega Castello. «E se alla prima domanda abbiamo ricevuto un buon numero di risposte positive dai circa 100 partecipanti, nel secondo caso ad alzare la mano sono stati pochi soggetti. Cambiare nella modalità di progettare un intervento è comunque complesso da accettare soprattutto per quelle associazioni che hanno una storia forte alle spalle».
Uno strumento in più per il Terzo settore
L’anno scorso InfoCooperazione ha condotto una prima indagine sullo stato dell’arte in Italia, e i dati emersi sono senza dubbio interessanti: oltre la metà degli intervistati ha affermato di conoscere molto (il 5,6%) o abbastanza (il 48,3%) della Teoria del Cambiamento, solo il 9% ha detto di non saperne nulla; ad averla già applicata è il 56,2% degli intervistati. Sono dati importanti che però si riferiscono esclusivamente al mondo delle Ong che operano nel campo della Cooperazione internazionale, e non devono trarre in inganno su una situazione che vede complessivamente il nostro paese ancora attardato rispetto al resto d’Europa: «Il settore della cooperazione è più avanti in questo ambito rispetto alla media delle organizzazioni che operano in Italia», dice Castello. «Questo perché il primo opera in un contesto di finanziamenti internazionali pubblici e privati basato su strumenti molto più vicini alla Teoria del Cambiamento. Non tutto il Terzo Settore è sugli stessi livelli».
Per ottimizzare le risorse
Sì, a guidare e favorire l’utilizzo della Teoria del Cambiamento come strumento di progettazione degli interventi filantropici da portare avanti sono spesso le richieste dei finanziatori, che possono inserire tra i requisiti per l’erogazione dei fondi la presentazione di un progetto redatto seguendo la teoria del cambiamento. È quanto sta valutando di fare la Tavola Valdese, orientata verso questo approccio per ottimizzare l’utilizzo di risorse certamente limitate, ma allo stesso tempo preoccupata di complicare troppo l’accesso alle risorse per quelle piccole realtà che ogni giorno operano nel sociale senza essere necessariamente strutturate come grandi organizzazioni.
Focus sui risultati
In Italia, al momento, lo sviluppo arriva comunque più dal basso, da realtà come Mission Bambini, più proattive per capire come progettare meglio l’intervento e che ritengono che questa modalità possa essere più vincente nei confronti dei finanziatori. L’idea di orientare i finanziamenti sul risultato è sempre crescente tra i donatori privati e pubblici e secondo Castello è addirittura «auspicabile e necessario che si interrompa la logica di finanziare le attività del progetto, e non il risultato. Sapere quanti eventi saranno organizzati e quante persone saranno coinvolte sono informazioni importanti in ottica di reporting ma in logica di efficacia, di effetti dell’intervento, non dicono nulla. Ciò che conta, alla fine, è il risultato: Ho migliorato la scolarizzazione dei ragazzi? Ho ridotto la disoccupazione?».
Uno step fondamentale per avere finanziamenti
A livello europeo la Toc è già entrata con decisione tra i requisiti essenziali per ottenere finanziamenti dagli enti erogatori, e spesso l’ha fatto anche in maniera esplicita: «EuropeAid richiede un modello per la presentazione dei progetti che si chiama Quadro Logico, uno standard che a livello internazionale si usa da molti anni ed evidenzia cosa il progetto intende produrre nelle varie fasi in termini di risultati. Nel 2015 senza che ci fosse tanto clamore, questo modello ha integrato completamente la Toc, nel senso che se ora si guarda al Quadro Logico di EuropeAid ha le stesse voci e la stessa logica della ToC, con poche differenze», spiega Castello. Anche in Italia qualcosa è cambiato a livello legislativo: «Nella riforma del terzo settore è stata messa una parte, un po’ buttata lì, sulla valutazione dell’impatto. Ancora non si capisce bene come questo debba avvenire ma è la prima volta che un legislatore inserisce questa attenzione sul cambiamento generato, e in questo contesto uno strumento come la Toc può rivelarsi molto utile anche per condividere all’esterno il proprio modello di intervento. Certo, non deve diventare lo scopo prioritario del suo utilizz, ma ne è sicuramente un aspetto interessante», afferma l’esperto.
Gli ambiti di applicazione
Finora, nei casi in cui è stata applicata in Italia, la Teoria del Cambiamento è stata utilizzata nell’ambito ristretto di singoli progetti, ma la sua applicazione può essere estesa anche alla struttura stessa dell’organizzazione. Secondo Castello, «Nel miglior scenario possibile un’organizzazione dovrebbe prima fare una Toc a livello di società e poi sviluppare quelle singole sui progetti. Definire una Toc sul singolo progetto è importantissimo, ma a monte bisognerebbe capire se quello specifico progetto è coerente con la teoria del cambiamento dell’organizzazione, che in sintesi rappresenta il modello strategico complessivo. Al momento non ci è ancora capitato di trovare entrambi i livelli in Italia, anche perché si tratta di un’operazione complessa e scomoda, mette in discussione lo status quo, le consolidate certezze dell’organizzazione». Eppure sarebbe decisamente utile soprattutto a quelle organizzazioni in crisi d’identità e/o che vogliono rimettere a fuoco le relazioni con i propri stakeholder interni ed esterni: «Ci è capitato di chiedere a 10 persone della stessa organizzazione quale fosse la mission e ottenere otto risposte diverse. È un fatto piuttosto grave se si considera che non si trattava di semplici volontari ma di coordinatori, figure chiave che dovrebbero avere molto chiara l’identità dell’organizzazione. Spesso succede perché ogni persona è portatrice di interessi di una particolare attività e se la mission della organizzazione non viene chiarita il rischio è che ognuno veda la propria area di influenza come quella principale». In questo senso la Toc può essere decisiva per rimettere al centro gli obiettivi dell’organizzazione, ricostruire una visione e incasellarci dentro i singoli progetti. «Abbiamo lavorato a un caso simile con il Ciai», racconta Castello «in cui l’organizzazione stessa ci aveva chiesto di fare questa operazione perché avvertiva spinte centrifughe e che si stesse diluendo la vision per cui il Ciai esisteva».
Dalla teoria alla pratica, il caso Mission Bambini
Ad aver già avuto esperienza di Teoria del Cambiamento è la Fondazione Mission Bambini fondata dall’imprenditore milanese Goffredo Modena nel 2000. «Abbiamo applicato la Toc su il programma Neet, in Italia, e il programma Cuore di Bimbi, all’estero, poiché la Fondazione opera sia sul contesto nazionale che internazionale», spiega Samuela Castellotti, European Partnership Manager di Mission Bambini. «L’abbiamo fatto con scopi un po’ diversi».
Quello sui Neet è un programma già attivo da qualche anno nella zona 9 di Milano, nell’ambito del Progetto 9+, rivolto ai giovani che non studiano e non lavorano per limitare la dispersione scolastica e trovare soluzioni occupazionali: «Si tratta di un target complesso con cui lavorare, difficile da intercettare, e da un lato volevamo capire se le soluzioni proposte erano le più adatte», spiega Castellotti. «Dall’altro volevamo utilizzare la Toc come strumento di ripianificazione strategica, con l’idea di dare poi nel 2019 e negli anni seguenti continuità al programma». Cuore di Bimbi è un progetto internazionale svolto negli ospedali di diversi paesi all’estero, In Zimbabwe, Zambia, Uganda e Kenya, Eritrea, Romania, Myanmar e Cambogia, uno dei progetti di punta di Mission Bambini, il loro programma sanitario per eccellenza, ecco perché «valutare i nostri outcome su Cuore di Bimbi era importante. Da tempo lo facciamo ma, anche con l’aiuto di Fondazione Lang, volevamo attuare un monitoraggio maggiore e definire in modo più preciso il modello di intervento».
Un percorso a ostacoli
Non è stato semplice «ragionare insieme su quale è l’impatto e quali risultati si vogliono raggiungere. Spesso si dà per scontato, poi quando ci si mette a tavolino a parlarne si scopre che le differenze, seppur magari piccole, ci sono». Sui Neet le difficoltà maggiori sono arrivate dal lavorare con tanti stakeholder diversi sul piano operativo e istituzionale: «Abbiamo fatto un workshop per coinvolgere tutti gli attori del progetto e far emergere dinamiche progettuali. Avere Fondazione Lang come moderatore ci ha permesso sempre di restare focalizzati sull’obiettivo del lavoro, senza dare peso solo a quello che va male». L’altra scommessa è stata quella di coinvolgere i finanziatori nel processo strategico: «Ne abbiamo coinvolto uno che lo sosteneva già da prima e uno che speriamo lo sostenga in futuro. L’approccio vincente, suggerito da Simone, è stato quello di non coinvolgere i finanziatori nel workshop operativo in cui potevano emergere maggiori criticità interne ed equilibri relazionali tra i partner e chiamarli in un secondo momento per allinearsi sugli esiti e sugli sviluppi futuri, condividendo in modo trasparente i risultati emersi dal processo. Questo ci ha permesso per esempio di avviare con Fondazione Cariplo uno scambio di pareri e informazioni positivo. Loro hanno un progetto di dimensioni molto maggiori, NEETwork, e trovare riscontri e risultati simili è stato per noi importante, visto il campione di dimensioni ridotte organizzato». Per Cuore di Bimbi si è invece creata una Toc su contesto internazionale, con workshop in Zambia, «una difficoltà maggiore e una sfida che ci aspetta, quella di applicare la teoria a contesti differenti, anche in Zimbabwe e Myanmar, dove la mia collega Giulia Albano si recherà presto per un incontro col ministero della Sanità. In Zambia abbiamo scoperto che ci sono anche altri operatori che magari non fanno quello che facciamo noi ma qualcosa di complementare, questo ci ha dato la possibilità di ridefinire il programma in modo migliore».