Vincere le resistenze al welfare

Vincere le resistenze al welfare

Sebbene se ne parli diffusamente, ci sono gruppi che si oppongono ai piani di benessere o che sono scettici verso il cambiamento. Per superare questi ostacoli serve un cambio culturale.

 

Nel linguaggio aziendale la parola “welfare” è divenuta di uso comune grazie alle previsioni contenute dalle varie leggi di Bilancio, a iniziare dal 2016, con le quali si è cercato di incidere, efficacemente, sulla oppressione fiscal-contributiva, vera e propria falcidia della redditività del lavoro dipendente. Detta così ci si sarebbe dovuti attendere una adesione plebiscitaria al welfare aziendale. Ma è stato proprio così? Pare proprio di no.

 

Il primo, sorprendente dato che si legge nelle statistiche che sono state anche di recente diffuse (si veda il rapporto Ecoslab) attiene all’esistenza di ‘fasce’ di resistenza tra i lavoratori e le rappresentanze sindacali (sono quelle più significative), ma pure tra i datori di lavoro.

 

La resistenza ha una sua spiegazione che non è solo la paura del nuovo, tutt’altro. Vi è un motivo specifico per ciascuno dei soggetti ora indicati. Le organizzazioni sindacali, infatti, temono di perdere sia il controllo sia l’antica – e ormai superata – finalità della contrattazione collettiva basata da decenni solo sugli incrementi in busta paga.

 

I lavoratori, invece, sospettano l’esistenza di qualche aspetto poco chiaro, se non del ‘trucco’. E infine i datori di lavoro pensano che si possa creare una spirale di richieste sempre più elevata cui potrebbero non essere in grado di dare una risposta adeguata. Si tratta di una sorta di pregiudizio, di scarsa duttilità e di pessima informazione.

 

Tutto ciò è, come detto, sorprendente, in quanto chi dovrebbe essere più convinto dei vantaggi – e sono significativi – che il welfare consente di raggiungere non crede nello strumento; e la stessa cosa vale per rappresenta istituzionalmente gli interessi dei lavoratori.

 

Eppure il beneficio maggiore è proprio destinato ai dipendenti: sono loro – più che i datori di lavoro – a vedersi restituita in beni e servizi quella parte di retribuzione che per anni è stata loro erosa dalle ritenute fiscal-previdenziali. Ma lo stesso giudizio, negativo, può esser speso nei confronti dell’azienda, che sottovaluta la possibilità di creare un filo diretto e non mediato con i propri dipendenti con ogni positiva conseguenza sul clima aziendale.

 

Ed allora come si spiega questo atteggiamento, dove sta il problema che ostacola l’affermarsi di una misura che ha in parte liberato il reddito del lavoro subordinato dalla oppressione dal famoso e funesto “cuneo”?

 

Superare gli ostacoli tra le parti

 

La risposta a questi interrogativi è, a mio avviso, culturale. Serve superare quella barriera oscurantista fatta di sospetto e di mancanza di conoscenza dello strumento. Un ostacolo ‘a prescindere’, che si frappone tra le parti in modo più che irrazionale. La conseguenza è che si impedisce la diffusione di soluzioni che, per i dipendenti, aiuterebbero non poco a far quadrare il ménage familiare.

 

E qui viene in aiuto l’esperienza professionale diretta, che mi ha consentito di cogliere taluni atteggiamenti che, inizialmente improntati alla ritrosia verso il nuovo, si sono successivamente modificati aprendosi alla oggettiva vantaggiosità dello strumento e ai benefici che il suo impiego effettivamente comporta.

 

Quell’esperienza ha consentito di comprendere che la chiave del successo del welfare risiede in due momenti. Il primo riguarda l’impostazione, per cui la corretta valutazione delle necessità concrete dei lavoratori. Un’indagine accurata consente di acquisire i dati che occorrono, di avere l’iniziale consenso rispetto allo strumento, e di impostare il metodo di relazione.

 

Il secondo step attiene alla comunicazione che deve essere necessariamente diretta, essenziale, chiara e incentivate. Mi soffermo sul questo aspetto per sottolinearne l’importanza: senza una comunicazione adeguata non vi può esserci accettazione.

 

La comunicazione deve puntare a chiarire, in modo semplice – per cui facendo toccare con mano – il prima e il dopo, le differenze del netto contro un lordo tassato e contributivamente eroso. Non deve esserci nulla di complicato, ed è bene evidenziare che dal piano di welfare, volendo, si può uscire (non succede quasi mai) ritornando al passato.

 

Non si tratta di un passaggio semplice, tutt’altro, ci si deve necessariamente affidare a chi, relativamente ai contenuti e alle modalità, può significativamente incidere su una scelta realmente importante, in grado di caratterizzare l’azienda collocandola tra quelle che hanno una visione moderna, per cui maggiormente attrattiva in particolare nei confronti dei giovani talenti.

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