Risparmio: la previdenza complementare in Italia alla prova dei cambiamenti nel lavoro
Parliamo di previdenza complementare in Italia nella Giornata del Risparmio, che festeggia quest’anno il suo centenario e apre anziché chiudere il Mese dell’Educazione Finanziaria e Previdenziale. La ricorrenza vuole fungere da stimolo per guidare il Paese verso una maggiore cultura del suo futuro, e di stimoli non ne mancano sicuramente quando si parla di questi argomenti con un interlocutore come Maurizio Agazzi, tra i maggiori esperti di previdenza complementare in Italia e per quasi trent’anni direttore generale del Fondo Cometa.
Proprio in occasione di questa Giornata, Tuttowelfare lo ha intervistato per avere il suo punto di vista sullo stato del welfare in Italia, e sulle risposte che può dare ai lavoratori e al Paese. Pensiamo alle difficoltà reddituali delle famiglie, agli svantaggi delle carriere femminili e alla bassa occupazione giovanile che tutto fa fuorché incrementare la sensibilità delle nuove generazioni verso il risparmio.
Dottor Agazzi, ricorre oggi la Giornata del Risparmio. Proviamo a riavvolgere il nastro e a tornare alla fine dello scorso millennio, quando lei era tra coloro che hanno dato il via alla previdenza complementare in Italia. Quale era l’idea alla base di quella “movimentazione”?
Il dibattito sulla costituzione di fondi di nuova emanazione nasce a fine anni ‘80, dalla riflessione e intuizione di mettere a disposizione dei lavoratori dipendenti un reddito aggiuntivo con cui potessero sostenere le loro necessità, ad esempio lo studio dei figli.
Insieme a questo, la valutazione, come parti sociali, era che si doveva e si poteva dare ai lavoratori l’opportunità di intervenire su quella che era definita la democrazia economica, permettendo loro di partecipare allo sviluppo del Paese attraverso gli investimenti.
La legislazione, prima con la legge 124 poi con la 335, diede il via ufficialmente a questi fondi. La dimensione nazionale e di categoria era quella che meglio poteva rispondere ai bisogni degli aderenti perché legata a una platea definita (ad esempio, i lavoratori metalmeccanici, diversi dai tessili), mentre oggi i confini sono più labili.
Che cosa l’ha spinta a impegnarsi in prima persona?
Mi sono avvicinato a questo mondo perché lo consideravo un completamento del mio percorso di militanza professionale sulla tutela collettiva e individuale, e perché ritenevo necessario affrontare le questioni della democrazia economica e degli investimenti con una visione sociale.
Investimenti ESG, quindi, già allora?
Già nel 1997 si ragionava in effetti di investimenti sostenibili anche se con una concezione più etica. Ciò che si voleva era combinare la gestione dei risparmi dei lavoratori, per produrre una pensione aggiuntiva, con l’introduzione di criteri valoriali negli investimenti che facessero poi tornare quei risparmi a vantaggio dei lavoratori stessi.
Sono trascorsi 25/30 anni e sono cambiate molte cose. Oggi cosa rappresenta la previdenza complementare? Quali sono gli obiettivi che sono stati raggiunti e quali invece quelli mancati o ancora da raggiungere?
Possiamo individuare due momenti in questo periodo storico.
Il primo momento godeva di una normativa che favoriva i fondi pensione negoziali e che, con le cautele del caso, consentiva di provare a sperimentare un modo diverso di fare finanza, cioè con fini previdenziali.
Il secondo momento inizia nel 2007, quando il decreto 252 ha azzerato la differenza tra secondo e terzo pilastro. Questo ha un po’ snaturato la funzione dei fondi negoziali che hanno dovuto rincorrere gli strumenti finanziari del terzo pilastro e un rendimento anche di breve periodo, dimenticando la loro alterità rispetto alle altre soluzioni. Questo ha impoverito la previdenza complementare in Italia.
Può approfondire?
Non potevi disporre di una rete di vendita professionale ed era difficile rincorrere il terzo pilastro con una proposta che andasse oltre il rendimento finanziario. L’unico aspetto che rimaneva di vantaggio erano i costi. Questo secondo periodo è quello in cui si è sofferto di più, e si è perso di vista il messaggio valoriale verso gli aderenti, rincorrendo i rendimenti finanziari in un periodo storico in cui la finanza non brillava per trasparenza e risultati.
La normativa europea e quella italiana hanno spinto verso forma di investimento finanziario, senza tenere conto di alcune specificità dei fondi negoziali, come l’assenza fine di lucro, e li ha equiparati ad altre soluzioni finanziarie e di mercato.
Il settore ha comunque realizzato una risposta buona, con la ripresa di attenzione agli ESG, il dialogo con le aziende, e cominciando a sottoporre il portafoglio ad analisi per una misurazione valoriale degli investimenti che andasse oltre il rendimento per considerare i benefici a livello sociale e di benessere complessivo.
Questo è il terzo tempo di questa tornata di 25/30 anni in cui, in un periodo complicato, con l’inflazione e la fine del Quantitative Easing, i fondi possono affrontare investimenti e valori con maggiori competenze e capacità di comunicare questi elementi agli aderenti.
Come vede il primo pilastro, invece?
Il primo pilastro ha vissuto una sorta di delegittimazione dal secondo, e non ha saputo cogliere la possibilità di una collaborazione fruttuosa. Non sembra trasparire la volontà di fare educazione effettiva, prevale la parte legata agli annunci catastrofici, come “Non sapremo pagare pensioni”.
La previdenza complementare in Italia le sembra invece su un piano differente?
Il secondo pilastro, soprattutto negoziale, pare più avanti, ed è emersa negli ultimi anni una maggiore consapevolezza dell’importanza di formare e informare gli aderenti, sia nel mondo del lavoro sia in altri ambiti. Oggi i fondi pensione stanno ridando attenzione alla comunicazione e riportando l’aderente al centro della propria azione.
Approfondiamo questo aspetto, fondamentale per la Giornata del Risparmio.
Ritengo che la comunicazione di un fondo pensione negoziale dovrebbe essere a due vie, non solo informare gli iscritti (e i potenziali) ma anche ascoltarli. Diversi fondi hanno istituito la funzione comunicazione e avviato collaborazioni con agenzie. L’attenzione ora mi pare che sia stabile, forse con qualche sbilanciamento rispetto a una comunicazione più social che effettiva, però si sta trovando un equilibrio.
Non bastano i social, non basta il sito, occorre un contatto che proceda anche attraverso una comunicazione tradizionale coi lavoratori, questo aspetto va intrapreso e ripreso. Dove si vuole realizzare cultura, quindi adesione informata e competente, occorre un percorso. Investire una quota delle proprie finanze nella previdenza complementare è una scelta che può comportare anche sacrifici, quindi comunicazione, cultura e trasparenza richiedono un iter e l’utilizzo di diversi approcci.
Guardiamo all’evoluzione del mercato del lavoro. Se consideriamo la popolazione attiva le questioni sono molteplici, e spesso preoccupanti. Da una parte la disoccupazione femminile e più in generale una occupazione più precaria, più a part-time e, non da ultimo, con un netto gap salariale. Dall’altra le nuove generazioni: come parlare a loro di pensione, costruzione di un futuro, quando il mercato non riesce ad attrarli e coinvolgerli?
Osserviamo una divaricazione rilevante tra lavoratori con forte potere di acquisto e lavoratori che stanno pagando da anni una carenza di reddito immediato. Per loro diventa difficile destinare risorse a forme di risparmio di lungo periodo.
Perché questi lavoratori possano recuperare potere di acquisto dei salari e destinare parte di questo recupero a secondo pilastro è necessario coinvolgere il governo e chi fa le leggi del Paese, perché intervenga con misure quali ad esempio margini di fiscalità e incentivi per la previdenza complementare.
Oggi ci sono due grandi categorie di soggetti svantaggiati: le donne e i giovani. Per le donne, la contrattazione può risolvere le contraddizioni che le riguardano, quindi una minore progressione di carriere, minore presenza nel mondo del lavoro, e maggior sopravvivenza, garantendo lo stesso trattamento pensionistico potenziale degli uomini. I giovani sono in una situazione diversa. Il futuro precario e l’arrivo ritardato nel mondo del lavoro rendono difficile dare una risposta in termini contrattuali di fondo pensione.
Per le donne c’è un problema di adesione svantaggiato, per il giovane c’è un problema di adesione.
Che cosa si potrebbe fare per le nuove generazioni?
Se lavoro come precario, ci può essere un intervento normativo che incentivi la contribuzione alla previdenza complementare anche nei periodi di non lavoro. L’adesione per i familiari a carico andrebbe tutelata maggiormente e non solo posta come un di cui della detrazione fiscale dell’aderente. Si possono pensare assegni di natalità maggiorati in caso di versamento dello stesso alla previdenza complementare. Per i periodi di precariato dei giovani, si potrebbe pensare a una sorta di 110%, riconoscendo al giovane che versa 100 un risparmio di 110. O pensare che nei contrati a termine, se non riscatti, per un certo periodo datore di lavoro continua la contribuzione.
Per i giovani non basta l’incentivo, va fatto percepire un percorso credibile, occorrono politiche per il lavoro che consentano di entrare nel mondo del lavoro, e capire poi se la tradizionale contribuzione sullo stipendio sia ancora efficace. È sufficiente per coprire i bisogni di welfare del lavoratore o occorre pensare ad altre forme di contribuzione e finanziamento?
Oltre alla previdenza complementare in Italia, c’è la sanità integrativa.
Ritengo occorra andare verso un welfare integrato, in cui sanità e previdenza dialoghino fra loro.
Questo permetterebbe di evitare la situazione per cui, alla firma del contratto, devi decidere se versare al fondo sanitario integrativo o al fondo di previdenza complementare.
Con un welfare integrato, il sistema previdenziale può per esempio individuare investimenti che vadano a vantaggio della sanità (penso ad esempio alle RSA), e il fondo sanitario può pensare a erogare prestazioni che possano essere di aiuto al sistema previdenziale, permettendo di evitare ad esempio il ricorso all’anticipazione.
O ci si muove come welfare integrato o le forme contrattuali saranno vincenti finché il mercato avrà prezzi più alti.
Breve inciso, ma le parti sociali oggi riescono a parlare a chi è under 40?
C’è un avvicinamento, una ricerca di nuove forme di dialogo, soprattutto tra le realtà più vicine al mondo del lavoro come i delegati in fabbrica.
Infine, comunicazione ed educazione. Ha sempre prestato particolare attenzione a chi stava per entrare nel mondo del lavoro. Per sensibilizzarlo sul suo futuro post lavoro, che sembra lontanissimo (e per i più giovani si fa sempre più lontano), per sensibilizzarlo sull’idea di accantonamento sicuro. Ha lanciato progetti ad hoc, è sempre stato un promotore del Mese. Ma se potesse mandare un messaggio chiaro agli “early GenZ”, quelli che dopo qualche stage stanno firmando il primo contratto o si stanno un po’ stabilizzando professionalmente, cosa direbbe loro?
Penso che sia fondamentale il dialogo con i più giovani, gli studenti e coloro che si accingono a entrare nel mondo del lavoro. A chi sta per farlo direi che il futuro è un cammino che si intraprende a partire da oggi e che dalle scelte presenti dipende il domani che avrà. Inviterei i ragazzi e le ragazze a essere curiosi e a non trascurare di informarsi su questioni come il risparmio e la pensione. Non tocca però solo a loro, è compito di tutti, Stato, parti sociali, fondi fare in modo che ci si avvicini.
Un messaggio e un invito di cui far tesoro in questa Giornata del Risparmio e in vista del Mese Edufin che sta per aprirsi.