Recupero dei luoghi e società circolare
Il welfare aziendale si deve configurare sempre più come un sistema legato al benessere dell’intera comunità. E recuperare le strutture produttive in disuso per creare servizi può rispondere alle esigenze dei cittadini.
Come si crea il valore? Il tema è certamente essenziale per ogni impresa, perché è su di esso che l’azienda costruisce il proprio successo e perché è sulla percezione dello stesso che si fonda il concetto di reputazione e, pertanto, anche quello di appartenenza e fidelizzazione. Ma questa domanda cruciale è altresì essenziale per il futuro delle città, dei territori e delle stesse comunità locali.
Il legame stretto che il welfare aziendale tende a costruire con i propri dipendenti è lo stesso che un territorio può creare con i propri abitanti e, in un’ottica più allargata di marketing territoriale, anche con chi guarda a esso sotto gli aspetti più diversi: dall’attrattività residenziale a quella produttiva (insediamento di nuove imprese), fino a quella turistica.
Se percepiamo valore poniamo attenzione, ci mettiamo in ascolto e in relazione, siamo disposti anche a sacrificarci perché esso possa diventare parte della nostra esistenza, di uomini, di imprese, di istituzioni. Tale concetto si relaziona con la nostra vita di consumatori, con la disponibilità a pagare per un oggetto o un servizio, ma vale anche per qualsiasi decisione in termini di strategie aziendali o di politiche pubbliche. Assumiamo collaboratori se percepiamo le loro virtù e le loro potenzialità, acquistiamo mezzi di produzione o servizi se ne verifichiamo le qualità in termini di miglioramento dei nostri processi, produciamo scelte e azioni legati alle politiche perché ipotizziamo che esse portino un contributo positivo per il cittadino. Il valore è così intrinsecamente legato a ogni nostra azione o pensiero semplicemente perché è uno, se non il principale, fattore di scelta. Anzi, si può affermare, senza ombra di dubbio, che esso è l’elemento fondativo delle nostre scelte.
Come si crea valore
Ma come si crea il valore? Il punto nodale è questo. Se ci limitiamo agli aspetti economici del nostro vivere, esso è semplicemente rappresentato dai fattori legati allo scambio e alle modalità di acquisto di beni o servizi: il prezzo ne rappresenta una proxy.
L’economia del benessere ci ha ben insegnato, nel secolo scorso, come la nostra disponibilità a pagare sia una variabile che, se sommata a quella di tutti gli altri consumatori, rappresenta l’opportunità di successo di un bene o di un servizio; molte tecniche economiche, attraverso varie metodologie, ci hanno anche insegnato che possiamo attribuire un valore economico a qualsiasi mezzo che soddisfi un bisogno, anche per quelli non commerciabili o non vendibili e anche per i beni pubblici puri: quelli che prevedono la non escludibilità dei non paganti.
Tutto ha un valore; quello dei beni o dei servizi dipende dalla nostra disponibilità a pagare, o, in alternativa, ad accettare un compenso quando cambia il nostro benessere individuale. Ma qual è il valore di un territorio? Come si forma, come si crea e soprattutto come lo si può incrementare? Queste domande sono centrali nel rapporto stretto esistente tra attrattività di un territorio e uso dello stesso.
Sia che si tratti di città o di superfici diffuse, la qualità dello spazio (ambiente più o meno naturale e ambiente costruito) e degli oggetti al suo interno (edifici residenziali, produttivi, storico-architettonici, ecc.) è data dall’uso che ne facciamo; una città o un’area a urbanizzazione diffusa acquistano tanto più significato quanto più sono in grado di essere luoghi ben organizzati, inclusivi e identitari. Le fabbriche, con le imprese che le hanno costruite, rappresentano un elemento inscindibile della qualità dei luoghi, nel bene e nel male. Se guardiamo al ‘bene’, sono stabilimenti dove si produce la ricchezza che poi viene distribuita; relativamente al ‘male’, invece, non solo sono dannose per i loro processi produttivi inquinanti (tema che riguarda la necessità di rivederli in modo sostenibile), ma anche per la presenza di numerose e, in alcuni casi, eccessive strutture ex produttive abbandonate, non utilizzate o sottoutilizzate.
Il caso rappresentativo del Veneto
Il Veneto, in questo senso, ne è forse l’esempio più eclatante, essendo la seconda Regione in Italia per consumo di suolo. Nei suoi 571 comuni non conta più solo la presenza delle 3.800 ville che ne punteggiano l’area, ma anche le 5.679 aree produttive industriali e artigianali per una superficie totale di 41.295 ettari, pari al 18,4% della superficie consumata e urbanizzata.
Il campo dello sviluppo post fordista e del capitalismo molecolare, come lo definisce il sociologo Aldo Bonomi, ha progressivamente trasformato il Veneto: da terra agricola povera, caratterizzata da una forte emigrazione, è divenuto un luogo ricco di produzioni ad alto valore aggiunto a un’intensa immigrazione. Ma questo modello ha funzionato fino alla crisi post 2008, la quale ha messo in luce le debolezze dello stesso.
Il Veneto è stato locomotiva del Nord Est fino a che le condizioni dell’economia lineare permettevano la perpetuazione del modello “produco-vendo-consumo” associato a quello “costruisco-produco-vendo”. Ma questo gioco è finito perché la crisi ha mostrato e dimostrato che l’economia a espansione infinita non esiste, soprattutto per la variabile dell’area su cui ci spostiamo, la cui dimensione è finita e limitata per sua stessa natura.
Il Veneto deve oggi riflettere sulla costruzione di un nuovo rapporto tra sviluppo e territorio, laddove il primo non è più solo ed esclusivamente crescita quantitativa, ma soprattutto riqualificazione, ovvero miglioramento qualitativo di quanto oggi costruito. Senza dimenticare che il Veneto è la prima Regione turistica in Italia per arrivi e presenze; il rischio è continuare ad avere una visione monoculturale, per filiere territoriali specifiche e poco diversificate, secondo approcci poco o per nulla bioculturali. Oggi va costruita una nuova relazione tra luoghi e persone, domandandosi cosa chiede e cosa offre il posto in cui viviamo. […]