Il welfare tra passato e presente: una misura a servizio del dipendente

Il welfare tra passato e presente: una misura a servizio del dipendente

Il concetto di welfare aziendale è meno recente di quanto si creda: ecco le tappe storiche fondamentali per far emergere differenze e continuità tra ieri e oggi. E per capire quali sono le sfide dell’imprenditore moderno.

 

“Welfare aziendale” è una locuzione che inganna. La presenza di termini stranieri nella lingua italiana è cresciuta fortemente negli ultimi decenni grazie alla globalizzazione e alla diffusione di nuovi mezzi d’informazione. La televisione e, più recentemente, Internet veicolano una pubblicità che si rivolge al mercato e alla distribuzione di massa e hanno aiutato questo fenomeno. Siamo abituati, infatti, a pensare che un termine inglese identifichi sempre qualcosa di moderno, così i forestierismi entrano a far parte della nostra quotidianità e spesso ciò avviene perché si legano a novità tecnologiche. Così è anche per il welfare aziendale.

 

Quando incontro imprenditori o esperti di Risorse Umane –anche durante i miei incontri formativi– non è raro che mi venga posta la domanda: ma è una cosa nuova? E come mai hanno introdotto questa novità? In realtà, a dispetto di quello che si crede, con l’espressione “welfare aziendale” facciamo riferimento a qualcosa che è già stato oggetto di ricerche non solo nell’esperienza mondiale, ma anche nel nostro Paese e che trova radici a cavallo tra il 1800 e il 1900 con esperienze che sono state apparentemente dimenticate o archiviate come tipiche di alcuni momenti storici.

 

È utile ricordare come questo concetto sia stato rappresentato con nomi quali “assistenza sociale nell’industria” durante il Fascismo; “altri contributi”, “provvidenze delle imprese” nella Relazione generale sulla situazione economica del Paese, presentata dal Ministro del Tesoro alla Presidenza del 1956, “provvidenze sussidiarie e integrative”, “assistenza e provvidenze sociali”, fino alla definizione di Confindustria nel 1953 di L’industria italiana per i suoi operai.

 

Eppure, questa memoria diventa ancora più importante a seguito di questi ultimi mesi, che abbiamo trascorso immersi in un’emergenza sanitaria non ancora conclusa. Le ragioni del welfare aziendale sembrano trovare fondamento proprio nel legame tra azienda, lavoratore e società o, meglio ancora, comunità nella quale l’impresa e i dipendenti si trovano a vivere. E questo nel corso del tempo –a differenza di quanto si possa pensare– non è cambiato. Ci si potrebbe persino sorprendere che le ragioni per le quali oggi un’azienda dovrebbe fare welfare aziendale siano paragonabili a quelle di un secolo fa. D’altra parte le esigenze dell’industria di allora erano quelle di attrarre, organizzare, provvedere, disciplinare, formare e riprodurre la forza lavoro…

 

È utile qui citare un esempio che conferma come la necessità di offrire beni o servizi ai propri dipendenti sia, nel panorama europeo, più diffusa di quello che si possa pensare.

 

Il welfare di Gaudì

 

Quasi un anno fa mi ritrovavo a Barcellona, per una breve vacanza. Uno dei monumenti che volevo visitare era la Sagrada Família. Chi ha l’opportunità –ma direi anche la fortuna– di visitarla nota, all’interno del plesso, un edificio realizzato in mattoni a vista, con entrambe le pareti e il tetto a forma ondulata. Non si può non vederlo: agli occhi di un visitatore poco attento sembra una costruzione successiva, destinata a biglietteria oppure a servizi vari per le necessità attuali della basilica.

 

Invece, si tratta della scuola della Sagrada Família, un edificio costruito nel 1909 dall’architetto Antoni Gaudí e situato sulla base della chiesa. La sua funzione era importante: era la scuola destinata ai figli degli operai che lavoravano alla realizzazione dell’opera, ma era frequentata anche dai bambini del quartiere, soprattutto delle classi deboli.

 

È importante sapere che, all’epoca dei primi lavori, il cantiere non si trovava al centro della città, come risulta essere oggi, ma in mezzo a terreni ancora in attesa di essere urbanizzati. In quel tempo le manovalanze che giungevano in massa alla ricerca di lavoro crearono intorno al cantiere un vero e proprio quartiere di baracche operaie. Gaudí si rese conto che chi costruiva l’opera non poteva essere considerato meramente manodopera, perché la vita degli operai era legata alla Sagrada Família. E questo fu chiaro soprattutto quando, nel luglio del 1909, uno sciopero generale sfociò in una ribellione anarchica –chiamata in seguito “Settimana tragica”– durante la quale furono bruciati tutti gli edifici religiosi. Gaudì avvertì la preoccupazione che negli operai potesse nascere un sentimento di odio verso quanto stavano realizzando e pensò che per evitare malumori e difficoltà fosse necessario ‘avvicinare’ i lavoratori agli affetti familiari. E così nacque l’idea di creare la scuola.

 

Questa costruzione, dall’alto valore simbolico e storico, oggi si trova in una posizione differente rispetto a quando venne realizzata: all’epoca, infatti, era vicina al cantiere, proprio perché in questo modo gli operai potevano essere più presenti nella vita familiare, tanto che dalle impalcature della Sagrada Família potevano osservare i figli intenti a seguire le lezioni a scuola. Quell’edificio, dunque, offriva ai lavoratori l’opportunità di ricongiungere la famiglia nei pressi del cantiere della chiesa, permettendo loro di vivere tra gli affetti nei momenti di riposo.

 

 

L’uomo al centro del lavoro

 

Come anticipato, anche le necessità che spingevano gli imprenditori di quasi un secolo fa non erano poi così lontane da quelle che guidano gli uomini di impresa di oggi. Il punto di unione è l’importanza della persona: l’uomo è al centro del lavoro! E non può essere altrimenti, perché senza uomo non c’è sviluppo umano, culturale, tecnologico e sociale. Il lavoro esiste in virtù delle necessità dell’uomo e non il contrario. Nel nostro Paese questo concetto è maturato nel tempo, ma si è poi perso dopo gli Anni 70.

 

Andiamo con ordine e partiamo dalla fine del 1800, quando in Italia il welfare aziendale cominciò a prendere forma: un momento storico in cui cominciarono a crearsi i primi poli produttivi moderni.

 

Lo sviluppo industriale europeo –e anche quello italiano– era guidato dal settore tessile e già dal XIX secolo erano nati nel nostro Paese i primi stabilimenti che utilizzavano innovativi sistemi meccanici per la produzione: in Lombardia si concentrava la lavorazione del cotone e della seta, mentre in Veneto quella della lana.

 

Le fabbriche erano costruite in località in cui era possibile trovare la forza motrice idraulica; si trattava di località che, di fatto, erano decentrate rispetto alle città o agli agglomerati urbani del tempo. Quest’aspetto non era secondario rispetto ai bisogni delle aziende di allora. Le industrie sorgevano vicino alla forza che permetteva il funzionamento dei macchinari, ma lontana dalla manodopera. Quest’ultima era di provenienza prevalentemente contadina, quindi con abitudini e concezione del lavoro del tutto differenti dalle necessità organizzative di un’impresa moderna. Per questo motivo la prima esigenza degli imprenditori era assicurarsi di avere la forza lavoro.

 

Questo bisogno non si discostava molto da quanto abitualmente praticato dai grandi possidenti per la manodopera agricola stagionale: questi, infatti, erano soliti creare infrastrutture sociali elementari al solo scopo di organizzare e favorire la disponibilità della forza lavoro, tenendo la manodopera nei pressi dell’azienda.

 

Nonostante la scelta di lavorare in fabbrica, gli operai erano legati a un ambiente ancora rurale, che li rendeva inaffidabili per l’alto numero di assenze dovute all’esigenza di gestire, nei periodi più intensi per l’agricoltura, anchel’attività agricola, come la semina, il raccolto e la vendemmia. La continuazione del lavoro contadino, da parte degli operai, era dettata inoltre dalla volontà dei lavoratori di realizzarsi. Il lavoro eterodiretto di fabbrica, infatti, con i suoi orari estenuanti non garantiva ai lavoratori quella sensazione di indipendenza e di autosufficienza ritrattabile nell’attività nei campi. L’imprenditore Alessandro Rossi del lanificio Rossi di Schio, in una lettera del 1863, affermava che la generazione dell’epoca non era ancora matura per il lavoro in fabbrica, in quanto abituata al lavoro senza orario né paga fissa, tipico delle realtà contadine.

 

Questo cambiamento, da economia contadina a industriale, rischiava, dunque, di creare problemi sociali, tuttavia non nuovi ad altre realtà economiche straniere.

 

L’imprenditore paternalista

 

Cominciava poi a emergere una figura importante, quella dell’imprenditore paternalista, che aveva un ruolo nella società e non di tipo meramente economico. L’imprenditore, infatti, non svolgeva soltanto l’attività di organizzare la fabbrica, perché gestiva le esigenze morali, sociali e materiali dei lavoratori, che si trovavano sradicati da una storia lavorativa differente, senza tuttavia avere i mezzi per poterla cogliere appieno.

 

In questa visione si colloca lo stesso Rossi, che concretizzò questo spirito paternalistico con la creazione di infrastrutture e servizi a favore dei propri dipendenti. I suoi stabilimenti si trovavano a Schio, Piovene Rocchette, Pievebelvicino e Torrebelvicino, territori pedemontani dove mancavano le infrastrutture. A Schio, per esempio, vennero fondati un asilo, una scuola materna e una biblioteca circolante per sostenere le famiglie nella formazione dei figli; l’impresa si prese cura delle necessità sanitarie con la creazione della società di mutuo soccorso e di un fondo pensione.

 

Ma non c’era solo questo. E poi non era la quantità di servizi a fare la differenza, ma come questi erano creati ed erogati. Il nuovo quartiere operaio, detto ‘nuova Schio’, fu progettato dall’urbanista-architetto Antonio Caregaro Negrin, con l’idea di creare una città ideale, avente come riferimenti quelle industriali belghe e francesi; un ambiente in contrasto con le iniziali capanne o con dormitori poco adatti a un lavoro che potesse definirsi umano. La necessità di essere attraenti e di avere una visione differente dell’organizzazione del lavoro si rendeva indispensabile, dettata dal fatto che l’ulteriore esigenza era quella di far apparire la propria industria interessante anche agli occhi stranieri. L’evoluzione tecnologica di molti opifici, come il cotonificio Rossi di Piovene Rocchette, richiedeva la presenza di tecnici belgi, francesi e svizzeri; questi, infatti, avevano conoscenze e abilità necessarie per l’avvio di una produzione meccanizzata e moderna. Attrazione e stabilità, andavano –e vanno tuttora– di pari passo: senza stabilità della forza lavoro non vi è produttività e continuità anche nella formazione in azienda.

 

L’articolo integrale è pubblicato sul numero di Luglio-Agosto 2020 di Persone&Conoscenze.
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