Conto alla rovescia per il congedo di paternità
La legge di Bilancio del governo Conte non prevede il rifinanziamento del congedo di paternità che da 5 anni va avanti in forma sperimentale e che nessuno finora ha pensato di rendere strutturale. Se si decidesse per la cancellazione del provvedimento l’occupazione femminile e la già bassa natalità nazionale sono a rischio.
Nel 2017, 107.369 neo papà italiani hanno usufruito del congedo di paternità, il 113% in più rispetto a quelli che vi fecero ricorso nel 2013, quando la misura introdotta un anno prima fece il suo esordio effettivo. Nel 2019 questo numero, cresciuto progressivamente di anno in anno, rischia di essere completamente azzerato, perché nella legge di Bilancio del governo Conte non è previsto il rifinanziamento di una misura che da 5 anni va avanti in forma sperimentale e che nessuno finora ha pensato di rendere strutturale. Oggi il congedo di paternità ammonta a 5 giorni (4 obbligatori e 1 facoltativo che si può richiedere solo nel caso in cui la madre rinunci a 1 giorno del suo congedo di maternità), è retribuito al 100% dall’Inps, ed è utilizzabile entro i primi cinque mesi dalla nascita del figlio.
Alla situazione attuale si è arrivati attraverso un percorso che era partito dal solo giorno obbligatorio più due facoltativi previsti fino al 2015, diventati due più due nel 2016, fino ai 4+1 a cui si è giunti con la proroga biennale della sperimentazione avvenuta nel 2017. Una sperimentazione che scade a fine dicembre e che il governo, al momento, ha deciso di non rinnovare.
Italia fanalino di coda in Europa
Un danno per le famiglie e un clamoroso passo indietro per un paese, l’Italia, che coi suoi 4 giorni obbligatori + 1 facoltativo, già viaggiava spaventosamente in ritardo rispetto al resto d’Europa, dove la media dei permessi retribuiti al 100% per i papà è di 8 settimane l’anno, con picchi di 54 giorni in Finlandia o di 15 più 54 di congedo parentale da dividere con la madre. La misura è prevista in tutti i 28 Stati dell’Ue con poche eccezioni tra le quali spicca quella della Germania, in cui però esiste un congedo parentale che può arrivare fino ai 14 mesi retribuiti al 67% e può essere chiesto indifferentemente dal padre o dalla madre. In Svezia, il primo Stato europeo a prevederlo nel 1974, il congedo di paternità è di 10 giorni, lo stesso che veniva invocato e viene invocato ancora dai sindacati, che a settembre lanciarono una petizione per il rifinanziamento della misura.
«Se il 4+1 che avevamo raggiunto dopo anni di piccoli passi non venisse rifinanziato entro il 31 dicembre sarebbe un messaggio simbolico determinante», commenta Liliana Ocmin, responsabile Politiche migratorie, Donne e Giovani della Cisl. «5 giorni non cambiano la vita di una persona ma in Italia la cura dei bambini è tutta sbilanciata verso le donne, con tutto ciò che ne consegue a livello di scelte lavorative che le lavoratrici mamme fanno». Un problema, questo, messo in luce anche dal presidente dell’Inps Tito Boeri, che aveva definito il congedo di paternità «uno strumento fondamentale per promuovere una maggiore partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per realizzare l’uguaglianza delle opportunità».
A rischio il tasso di occupazione femminile e la natalità
Per Ocmin è incoerente che un governo che «sta spingendo sul riposizionamento dell’affidamento congiunto, del disequilibrio genitoriale, poi non rifinanzi il congedo di paternità». Il 14 novembre, la sindacalista ha partecipato a una riunione tenutasi nella sala Berlinguer della Camera dei deputati tra i sindacati e un gruppo di parlamentari, per fare il punto sui temi che hanno ripercussioni sul mondo femminile. «Noi auspichiamo che questa misura si possa recuperare, che il governo cambi idea, rifinanzi la sperimentazione e la trasformi in norma strutturale portando a 10 i giorni obbligatori». In realtà, in alcune aziende, il 4+1 finora previsto dallo Stato era già stato superato: «Come sindacati eravamo riusciti a ottenere un’estensione di questo istituto, raggiungendo anche una settimana di congedo pagato nel settore terziario, ma se viene meno la norma viene meno anche la contrattazione. Si torna indietro». E il rischio è di incidere negativamente su tutta una serie di fattori, dal tasso di disoccupazione femminile alla denatalità.
In bilico anche altre iniziative legate al welfare aziendale
I sindacati invocano dunque a gran voce un passo indietro del governo, ma non è tutto, perché a rischiare sono anche altre forme di agevolazione che influiscono sui meccanismi di welfare aziendale: «Abbiamo chiesto conferma anche del finanziamento del fondo della conciliazione perché non hanno dato garanzie nemmeno su questo. Poi non siamo a favore di misure come voucher e bonus, ma anche lì non si può togliere quel poco che c’è, fare piazza pulita di bonus bebè e baby sitting, smontare dei piccoli tasselli senza introdurre altre misure positive. Non è neanche possibile pensare che l’unico strumento per la natalità sia dare un pezzo di terra per chi mette in cantiere un terzo figlio», osserva Ocmin, per la quale il problema di fondo è che «non ci sono incentivi all’occupazione femminile, e per ogni donna che lavora genera cinque persone che lavorano. C’è bisogno di un incentivo all’occupazione per le vittime della violenza, di misure come un anno di contributi assicurativi riconosciuto e garantito per la maternità. Altrimenti, davanti alla cura familiare che continua a essere sbilanciata verso le donne, queste ultime avranno sempre una carriera compromessa. Vorremmo che si riequilibrasse la condivisione della responsabilità genitoriale, e il taglio del finanziamento del congedo di paternità va nella direzione opposta». E ora molti lavoratori si domandano se le aziende sono pronte a sostenere comunque il congedo di paternità anche nel caso in cui il Governo decidesse di non rifinanziarlo.