Turnover aziendale: l’indicatore di soddisfazione dei dipendenti
Sentiamo spesso parlare di turnover in ambito lavorativo-aziendale, ma di cosa si tratta esattamente? Per turnover si intende il tasso di ricambio del personale, vale a dire il flusso di persone in entrata, quindi assunte e in uscita, ergo dimesse o licenziate, da un’azienda. Un elevato turnover può dipendere da tanti e diversi fattori come la retribuzione non in linea con le aspettative e capacità, la mancanza di prospettive di crescita o l’insoddisfazione derivante dalle proprie mansioni o dallo stesso luogo di lavoro.
Il turnover aziendale
Di norma aziende con tassi di turnover molto alti rispecchiano politiche di wellbeing poco motivanti, per questo sempre più spesso i candidati in fase di ricerca guardano al tempo medio che i dipendenti trascorrono nell’azienda selezionata. Per evitare un alto livello di turnover le politiche di welfare sono fondamentali perché non migliorano solo il buonumore dei dipendenti ma assumono un ruolo strategico essenziale per aumentare l’engagement del personale. In questo modo si va a limitare il turnover volontario e si riduce il suo impatto economico sull’azienda. Le organizzazioni che studiano e attuano programmi volti a incrementare sia il wellbeing che l’engagement dei dipendenti sono quelle con maggiori vantaggi sia in termini di performance aziendale sia in termini di salute e felicità sei singoli lavoratori.
Oggi in Italia, il turnover medio è di circa 5,5 anni, una cifra in linea con la media europea (5,4 anni), e che varia a seconda del settore e della regione. Ad esempio, nel nord Italia c’è una maggiore mobilità lavorativa, quindi le regioni settentrionali avranno tassi di turnover più alti rispetto al sud. Ma andando nel pratico quanto costa all’azienda quando un lavoratore decide di cambiare posto di lavoro? Secondo una recente ricerca Jointly in Italia la dimissione di un lavoratore ha un costo medio che si aggira attorno al 50% della RAL del dipendente che decide di lasciare. Quindi l’impatto negativo per l’azienda è compreso tra €11.000 e €13.000 (su un valore di RAL media a livello nazionale). Questo calcolo tiene conto anche delle spese di assunzione, onboarding, e, ovviamente, il tempo necessario affinché il nuovo assunto raggiunga un livello di performance soddisfacente. Tuttavia ci sono altre ripercussioni oltre a quelle puramente economiche. Infatti, troppo turnover porta instabilità sia nelle gerarchie sia nei legami tra i membri di un team. Un cambiamento troppo frequente dei propri dipendenti comporta difficoltà nel riuscire a instaurare rapporti di lavoro solidi basati su competenza e fiducia. Questo va a influire negativamente sul morale e sulla coesione del team, rendendo difficile mantenere un ambiente di lavoro produttivo e soddisfacente. Inoltre, un alto tasso di turnover può ledere la reputazione dell’azienda lasciando pensare che il personale cambi rapidamente perché infelice e insoddisfatto. Secondo una recente ricerca Jointly il malessere all’interno del contesto lavorativo è crescente tanto che solo il 9% dei lavoratori afferma di stare bene a lavoro mentre il 42% ha cambiato lavoro nell’ultimo anno o sta pensando di farlo nel breve termine.
Il welfare come strumento per le aziende
Spesso le aziende hanno politiche incapaci di mettere il lavoratore al centro delle dinamiche aziendali (soprattutto i più giovani), a sottolineare questo aspetto un’indagine di Willis Tower Watson che ha rilevato che un neo-assunto su tre lascia il lavoro entro i primi due anni. Come analizzato i fattori che portano i dipendenti a lasciare il proprio impiego sono tanti, dalla poca riconoscenza a una leadership inadeguata, per questo l’adozione di una adeguata strategia di corporate wellbeing può migliorare la vita lavorativa. Ma cosa si intende esattamente con corporate wellbeing? La promozione del benessere fisico, mentale ed emotivo dei lavoratori all’interno di un’organizzazione ma anche una serie di iniziative e programmi pensati per migliorare la salute e la felicità dei collaboratori, generando un ambiente di lavoro salubre.
Secondo i dati analizzati da Jointly un’adeguata strategia di corporate wellbeing può portare a un incremento del 20% di produttività rispetto alla media delle aziende che non le adottano, con un valore aggiunto per addetto pari a quasi 60mila euro, a fronte di una media attuale di 50mila euro. Ma c’è di più. Infatti, può agire anche sulla capacità di retention, ovvero la capacità delle aziende di trattenere i propri talenti, riducendo i costi nascosti del turnover sull’azienda. Il contesto lavorativo attuale vede le aziende confrontarsi con un mercato caratterizzato da forti elementi di discontinuità per questo il welfare aziendale gioca un ruolo determinante negli equilibri aziendali. Gestire in modo funzionale ed efficace le politiche di welfare può rappresentare il salvagente capace di dare stabilità alle organizzazioni.
Articolo pubblicato originariamente su TouchPoint Magazine