L’evoluzione dei premi di risultato

L’evoluzione dei premi di risultato

Attraverso le tappe della storia dei premi di risultato in Italia si ripercorre il rapporto tra Governo e aziende, che va dai primi provvedimenti del Secondo Dopoguerra, ai giorni nostri, passando per l’Autunno caldo del 1969, il Protocollo Ciampi post Tangentopoli, le misure dei governi Berlusconi e Renzi.

 

Quella dei premi di produzione – di cui tanto si discute di questi tempi per rilanciare la produttività – è in realtà una storia che affonda le radici prima della Seconda Guerra mondiale. Con la denominazione di “premi di produzione”, comparvero, infatti, fugacemente già nel Codice civile del 1942 con una citazione indiretta nell’articolo 2121.

 

Tuttavia, fu nel Secondo Dopoguerra che i premi di risultato, quali oggetto centrale della contrattazione aziendale, divennero i protagonisti di alcuni snodi cruciali nella storia politico-economica del nostro Paese. Per tutti gli Anni Sessanta, i premi aziendali discesero e dipesero dagli spazi di contrattazione definiti e consentiti dal livello superiore della contrattazione, quello nazionale.

 

Ma nel cosiddetto ‘Autunno caldo’ del 1969 essi si rivelarono il vettore (e il simbolo) della liberazione da ogni regola del nuovo movimento operaio e della sua emancipazione dalla condizione di ‘classe subalterna’ attraverso la forza organizzata delle sue rappresentanze.

 

Fu infatti sull’affrancamento della contrattazione articolata dalla sua condizione ancillare rispetto a quella di settore che il 3 settembre 1969 si interruppero ruvidamente le trattative appena iniziate per il rinnovo del Ccnl Metalmeccanico per la “pregiudiziale” posta sul punto da Confindustria, dando avvio a un conflitto sociale di lacerante intensità (520 milioni di euro di sciopero in poco più di tre mesi!).

 

Crollata la resistenza di Confindustria, che firmò la resa il 21 dicembre 1969, piegata dalla pressione delle piazze e dal vacillare dell’ordine pubblico dopo le bombe del 12 dicembre, non meno che dall’azione del Governo (il Presidente di Confindustria Angelo Costa accusò pubblicamente il Ministro del Lavoro Carlo Donat Cattin di non essere imparziale), la contrattazione aziendale dilagò ‘alluvionalmente’ per tutto il decennio successivo.

 

Si diffuse in particolare nelle imprese di taglia media e grande, contribuendo non poco all’impazzimento del costo del lavoro e dell’inflazione che condusse alla svolta intitolata all’austerità e culminata nel Protocollo Scotti del 22 gennaio 1983. Esso segnò la fase della maggior flessione della premialità aziendale, consentendo ai sindacati la riattivazione dei contratti nazionali di categoria a patto che fossero sedati i contratti d’impresa.

 

Il ‘pendolo’ che nel 1983 aveva visto declinare i premi distribuiti a livello aziendale portò poi – come sempre accade nelle relazioni industriali – al revamping della contrattazione nel biennio 1988-89, con la sottoscrizione di importanti accordi nei grandi gruppi industriali (Fiat, Zanussi, Olivetti, IBM, ecc.), connotati tutti, nella diversità degli accenti, dall’erogazione di premi collegati al raggiungimento di concreti obiettivi di produzione, di efficienza organizzativa o economica, di qualità.

 

Su quel modello, a valle della terribile crisi istituzionale (Tangentopoli) e finanziaria (l’attacco speculativo alla lira) del 1992, fu costruito il nuovo assetto della contrattazione, sancito dal Protocollo Ciampi del 23 luglio 1993, con la rigorosa ripartizione delle missioni: alla contrattazione nazionale il compito di preservare i salari dall’inflazione; alla contrattazione di secondo livello, quello di distribuire i benefici generati dal miglioramento competitivo delle performance d’impresa.

 

La nuova stagione dei premi di risultato

 

I premi di risultato tornarono primattori nel 2009 quando il Governo Berlusconi, fra le misure adottate per resistere all’irrompere feroce della grande crisi, da un lato ampliò illimitatamente il perimetro degli ammortizzatori sociali con la Cigs in deroga e, dall’altro, concentrò attraverso una cedolare secca al 10% la riduzione fiscale sui redditi da lavoro intorno ai premi riconosciuti dalla contrattazione di prossimità all’incremento della prestazione produttiva e della sua flessibilità.

 

Nel 2011, invece, fu la ‘Rivoluzione d’agosto’ ad attribuire quella stessa contrattazione di prossimità con il decreto legge 138 sia un’ampia potestà derogatoria rispetto al contratto nazionale e addirittura alla legge in materie delicatissime come le tipologie d’assunzione e i licenziamenti, sia l’efficacia erga omnes che non si vedeva dai decreti Vigorelli del 1959.

 

Uscita un po’ ammaccata dalle prime riforme del Governo Renzi, che con l’intervento fiscale degli 80 euro e la rimodulazione del mercato del lavoro compendiata nel Jobs Act del 2014 avevano restituito un ruolo prevalente alla diretta legificazione centrale, la contrattazione aziendale conobbe dal 2016, grazie a un provvedimento apparentemente laterale di quello stesso Governo, un impulso violento, attraverso il riconoscimento – sul versante dell’impresa – della decontribuzione totale dei premi di risultato convertiti in misure di welfare, che si aggiunse – sul versante del lavoratore – all’applicazione dell’aliquota agevolata del 10%.

 

Il successo, tanto più arrembante quanto più disordinato, del nuovo regime incentivante ha indotto la Lega a presentare di recente una proposta di ulteriore rafforzamento in tale direzione, con l’ampliamento degli importi premiali defiscalizzabili e addirittura con il raddoppio del beneficio fiscale (che verrebbe portato al 5%).

 

Sarà molto interessante seguirne il percorso. È infatti evidente quanto essa mal si concili – in termini sistematici, focalizzata com’è sulla produttività del fattore lavoro – con l’approccio ideologicamente non selettivo e generalista della flat tax di matrice lafferiana.

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