Non di solo sgravi fiscali vive il welfare
I piani di benessere non sono solo un’opportunità per le aziende per risparmiare. Se ben utilizzati costituiscono un’occasione per attrarre talenti, ma pure per rendere i lavoratori più felici e produttivi. Sono però ancora troppe le imprese che applicano il modello ‘retributivo’.
Sociale, territoriale, paternalistico, retributivo, top down: sono molti gli aggettivi attribuiti al welfare nel corso degli anni, così come le definizioni e interpretazioni date allo strumento. A raccontare la storia del welfare aziendale, a delinearne una panoramica in Italia e le possibili evoluzioni future, è Diego Paciello, dottore Commercialista ed esperto di welfare aziendale.
“La normativa fiscale che regola il welfare aziendale esiste già da almeno 20 anni, ma lo strumento si è sviluppato sul mercato solo dal 2015 in poi. In questi anni, abbiamo assistito a un’involuzione delle aziende: siamo passati da un modello di welfare ‘paternalistico’, di stampo olivettiano, ma con finalità puramente sociali a un modello ‘retributivo’, concentrato quasi esclusivamente sulla leva fiscale e che trascura il reale valore che lo strumento può offrire”.
Pro e contro dei flexible benefit
Uno degli step fondamentali nell’evoluzione del welfare aziendale arriva nel 2008, quando inizia a circolare il termine “flexible benefis”, cioè la possibilità di far scegliere ai dipendenti i beni e i servizi che preferiscono sulla base di un budget prestabilito. Questa possibilità è stata confermata dall’Agenzia delle Entrate a luglio 2011, decretandone di fatto la grande diffusione.
“Con i flexible benefit siamo passati da un modello di welfare top down, calato dall’alto, a un modello scelto dai dipendenti”, ripercorre Paciello. Mentre il primo era deciso dai vertici e uguale per tutti i dipendenti, il secondo tiene conto del fatto che le necessità di un lavoratore di 60 anni non sono le stesse di un 30enne.
“Dare a ogni persona la possibilità di scegliere il proprio pacchetto, da una parte ha aumentato di tanto il livello di soddisfazione; dall’altro ha creato un problema di informazione: almeno un dipendente su tre non sa cosa viene fatto nella sua azienda”. Per poter fare una scelta pienamente consapevole, infatti, le persone devono essere ben informate sullo strumento di welfare, su come funziona e su quali sono i beni e servizi offerti.
“In mancanza di una corretta informazione, il risultato è una scarsa diffusione e utilizzo dei benefit, che va a inficiare la reale efficacia del welfare”. Ne sono un esempio i bassi tassi di conversione del Premio di produzione, che raramente superano il 30% anche nelle grandi aziende.
Capire e far capire il vero valore del welfare
Con la legge di Stabilità del 2015, che ha permesso di convertire la retribuzione variabile tassabile in beni e servizi non tassati, il welfare ha cambiato natura: da ‘sociale’ a ‘retributivo’. “Con la conversione del Pdr in servizi di welfare si è persa la natura sociale dello strumento: si ottiene il welfare solo se si produce il risultato e scatta il premio.
Questo vuol dire che se non si raggiungono gli obiettivi aziendali, non si ha il welfare. In questo modo, però, non si crea quel circolo virtuoso prodotto dal welfare sociale, nel quale i beni e i servizi vengono introdotti per far star bene le persone, con la speranza che in questo modo lavorino meglio e facciano prosperare l’azienda, finanziando così il costo del welfare”, argomenta Paciello.
Inoltre, oggi le aziende sono troppo concentrate sulla leva fiscale del welfare e trascurano gli altri importanti vantaggi che lo strumento può offrire. “È utile far sapere quanto i dipendenti risparmiano convertendo il Pdr in beni e servizi, ma è importante far capire alle persone anche il valore dei benefit offerti”.
L’esperto cita studi specifici che mostrano chiaramente che c’è una differenza tra il valore percepito dalle persone, il valore di mercato e il valore effettivo. “Far capire il valore di un determinato benefit permette di cambiare completamente il livello di percezione dei lavoratori e far loro apprezzare appieno i servizi che l’azienda offre”.
Ma questo non è l’unico aspetto trascurato da un focus esclusivamente fiscale. “Le aziende oggi hanno un problema di retention e attraction e il welfare può essere utilizzato per attrarre talenti. Offrire più soldi non basta, bisogna creare un sistema che abbia un valore più alto: far vedere che nell’ambiente di lavoro si sta bene e si lavora bene e che l’azienda si cura dei dipendenti”.
Fotografia attuale e prospettive future
“Oggi si fa molto più welfare rispetto al passato e si sono ampliati anche i sistemi a disposizione, ma il panorama in Italia è molto disomogeneo: da nord a sud, ma anche tra le aziende dello stesso territorio”. Secondo il commercialista, però, da qui si può solo andare avanti.
“Quando un’azienda inizia a offrire beni e servizi ai propri dipendenti, non può tornare indietro tanto facilmente perché il boomerang sarebbe peggiore del booster dato alle persone in questi anni”. Inoltre, le aziende stanno iniziando a capire che informazione e comunicazione sono i fattori chiave che determinano il successo del welfare.
“Ormai le imprese hanno capito che imporre un piano di welfare top down, senza chiedere ai dipendenti cosa preferiscono e di cosa hanno bisogno, è un grosso errore e quindi agiscono di conseguenza”.
Non è facile predire come si evolverà il welfare aziendale in Italia, ma Paciello è convinto che gli scenari futuri dipenderanno da due fattori: la norma fiscale e come le aziende interpreteranno lo strumento. “La norma fiscale ha un impatto fortissimo sul welfare: in passato l’ha spinto a espandersi, se cambierà in futuro avrà sicuramente degli effetti, difficili da predire. Ma il welfare di domani dipenderà anche da come le aziende lo interpreteranno: se implementeranno dei piani solo per risparmiare, non creeranno valore”.